Il pivot Calebotta: nobiltà d’altri tempi!

Un due metri discendente da un eroe nazionale… Paratore e Tracuzzi lo plasmano fino a farlo diventare immarcabile… L’exploit alle Olimpiadi e i 59 punti in campionato…

Calebotta davanti all'ingresso della sede della Virtus Bologna (Virtuspedia)

Fu il primo duemetri della pallacanestro italiana. E per essere il primo, portava attorno alla sua imponente figura il giusto alone di mistero e di stravaganza. Persino il nome, Nino Calebotta, che sembrava quanto di più nostrano ci fosse, aveva in realtà un’origine esotica da svelare.

Che non passasse inosservato, in quella schiera di cestisti-ometti anni ’50, era fuori di dubbio. Ma che uno come lui potesse anche esprimere doti tecniche, oltre a quelle fisiche, apparve a tutti come la cosa più sorprendente. Un antesignano. Da lì in avanti si capì anche da noi che i lunghi nel basket – più che una risorsa – costituivano la normalità.

I cromosomi della statura avevano ascendenze nobili. Pare infatti che tra i suoi vecchi antenati ci fosse l’eroe nazionale d’Albania, Giorgio Castriota Scanderbeg, vissuto nel XV secolo, che i racconti del tempo avevano dipinto come un colosso di due metri e venti, dotato di una forza fuori dal comune. Di generazione in generazione, la dinastia si era succeduta col cognome Colbot (in albanese, gran capo), che divenne Calebotta quando una parte del casato decise di trasferirsi in Italia.

Il padre era un funzionario del Ministero degli Esteri, in giro da un paese all’altro, e così Nino divenne un cittadino del mondo. Nacque a Spalato, nel giugno del 1930, per uno strano gioco del destino che lo legava ancor più alla terra balcanica. Poi un’infanzia senza fissa dimora, tra Parigi, Odessa, Il Cairo. Racimolava cultura in ogni luogo, e tra i tanti insegnamenti ci fu anche il basket: avvenne in Egitto, dove un «certo» Nello Paratore (allenatore rampante, di origini siciliane) gli mise un pallone in mano e, indicandogli il canestro, lo invitò ad allungare il braccio…

Il gigante delle V nere stretto nella morsa di due difensori (Virtuspedia)

Milano segnò l’approdo italiano. Bastò la sua altezza (2 metri e 4 centimetri, per la precisione) a farlo mettere in luce con la maglia del CUS, in serie B. Gli occhi addosso di tutti, mai visto un giocatore di tale prestanza. La Virtus Bologna, che se lo ritrovò come avversario in un torneo disputato sul suo campo (la mitica Sala Borsa), bruciò la concorrenza, offrendogli un impiego nel magazzino del presidente e, come premio d’ingaggio, una fiammante lambretta… Affare fatto!

Da allora successi e gloria. Quattordici stagioni consecutive con le «V nere», dal ’53 al ’68, ma furono i primi anni a decretare il suo vero exploit, grazie a un pigmalione di nome Vittorio Tracuzzi, al quale la società bolognese aveva affidato il doppio incarico di giocatore-allenatore. Il «moro di Messina» (appellativo dovuto alle sue origini e al colorito della sua carnagione) trasformò quel ragazzone rozzo e dinoccolato in un elegante cestista. Lento era lento, forza muscolare pochina; ma gli bastò coordinare alcuni movimenti sotto canestro per diventare lo spauracchio delle difese avversarie. L’unico problema era ricevere la palla, il resto gli veniva facile: su in alto con le sue lunghe braccia, per poi lasciare partire un classico tiro a uncino. Praticamente immarcabile.

Arrivarono presto due scudetti consecutivi, nel ’55 e nel ’56. Tracuzzi ringhiava, dalla panchina e sul campo. Dava tanta carica ai suoi, ma era soprattutto uno stratega. Aveva inventato una difesa a zona 1-3-1, un contropiede e uno schema offensivo con servizio sotto, che mettevano in crisi chiunque; e da una parte all’altra del campo, Calebotta era una figura geometrica chiave, un pilastro indispensabile. Stoppate, rimbalzi, canestri, tanti canestri: in una partita della seconda stagione-scudetto arrivò a segnare 59 punti, record che ancora resiste nella hit-parade italiana di tutti i tempi.

Olimpiadi di Roma '60: Calebotta ruba un rimbalzo agli avversari USA (Conoscere il Basket)

Le porte della Nazionale si spalancarono da lì a poco. A dargli il benvenuto (toh, chi si rivede!) c’era Nello Paratore, che aveva deciso di sfuggire ai sussulti nazionalistici in Egitto, accettando la proposta del presidente FIP, Decio Scuri. Le Olimpiadi di Roma del ’60 come primo importante impegno da onorare. Giunse un successo insperato. Quarti alla fine, dopo avere assaporato anche il gusto di una medaglia, al cospetto di un pubblico mai così numeroso, sulle tribune del Palasport e – per la prima volta – davanti alla TV. Per Nino Calebotta fu un’esperienza esaltante: contribuì con il suo uncino (e con i suoi gomiti) alle vittorie su Ungheria, Giappone, Cecoslovacchia e Polonia; davanti ai campioni statunitensi, sovietici e brasiliani riuscì a non sfigurare. Venne celebrato come un eroe, al pari di tutti i suoi compagni. Tra le cose che l’Italia del basket poté mostrare al mondo, c’era anche un pivot degno di tal nome.

Fece registrare 63 presenze in maglia azzurra e una lunga carriera nelle squadre di club: giocò anche a Venezia e a Roseto degli Abruzzi; poi ancora a Bologna per diversi anni, su sponde diverse da quelle virtussine. Così lunga, la sua carriera, da veder crescere e maturare attorno a lui tanti altri duemetri, più potenti, più tecnici, più veloci. Si vide sorpassare da quel basket che – in qualche modo – aveva fatto progredire con la sua semplice presenza in campo e con i suoi delicati movimenti da trampoliere. Era la legge naturale dell’evoluzione: non restava che accettarla, così come accettò di restare sempre più in panchina negli ultimi campionati disputati. Diede anche questo esempio di passione e di umiltà, prima di scomparire definitivamente dalla scena.

Nunzio Spina