Basket e Olimpiadi: Roma 1960
L’incantesimo della città eterna!

La più bella edizione delle Olimpiadi… Italia record di medaglie… Il pubblico, grande successo… Il basket: sfuma il bronzo per un canestro… L’opera di Paratore…

Giochi della XVII Olimpiade: Roma, 25 agosto - 11 settembre 1960

Gli astri sorrisero a Roma olimpica. Tutti! La videro così bella, antica, ricca di storia; ne restarono affascinati, e fecero in modo che per le sue Olimpiadi – lungamente attese – ogni cosa funzionasse al meglio. Non ci furono guerre di mezzo; non ostacoli nella fase organizzativa, né imprevisti nella fase di svolgimento. Persino il cielo volle dare il suo apporto, proponendo solo uno sfondo di sole e di stelle in quei giorni di fine estate. Edizione memorabile. La più bella in assoluto secondo alcuni. Lo fu sicuramente per lo sport italiano, che conquistò un numero record di medaglie e un irripetibile terzo posto nella classifica finale. Il basket non salì sul podio, ma fu là che la sua vita cambiò.

Il culto del passato fu la carta sulla quale l’organizzazione puntò in maniera particolare. Già le staffette della fiaccola, accesa dalle sacerdotesse di Olympia, disegnavano un itinerario carico di suggestione: lo sbarco a Siracusa, trasportata dal veliero «Amerigo Vespucci», e da qui lungo la costa ionica, ricalcando la mappa della Magna Grecia (Lentini, Taormina, Sibari, Metaponto), per immettersi sulle strade dell’Antica Roma, in un ideale passaggio di consegne da un’epoca all’altra. Lo scenario poi diventava incomparabile nella capitale per ospitare alcune competizioni: come la basilica di Massenzio per la lotta, le terme di Caracalla per la ginnastica, il selciato dell’Appia Antica per la maratona, con arrivo sotto l’Arco di Costantino, che più trionfale di così…

La rappresentativa italiana, elegante come sempre, sfila nella cerimonia d’apertura sotto la tribuna centrale dell’Olimpico

Ci fu anche il nuovo in bella mostra. Lo Stadio Olimpico, realizzato proprio in seguito alla candidatura di Roma e inaugurato già anni prima, si presentò a lucido nella sua veste completa il 25 agosto, giorno in cui il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi pronunciò la formula di apertura; il tutto esaurito sulle tribune, capaci di 80.000 posti, si sarebbe registrato anche per le gare di atletica. A raccogliere i maggiori apprezzamenti, tuttavia, furono tre modernissimi impianti, sui quali era stata impressa la firma – e lo stile – dell’ingegnere Pier Luigi Nervi: erano lo Stadio Flaminio, allora destinato ad accogliere il calcio, il Palazzetto dello Sport e il Palazzo dello Sport (o Palaeur). Fu in questi ultimi due edifici, accomunati dalla tipica struttura circolare delle tribune e dalla volta a calotta sferica, che il basket azzurro celebrò il suo exploit.

L’Italia era riuscita – con tanti sacrifici – a ricomporre i propri pezzi dopo essere stata deturpata dalla guerra. Adesso c’era voglia di vivere, di progredire, di mostrare allegria anche; e questo era il volto che si voleva offrire al mondo. Il boom economico era lì dietro l’angolo, pronto a esplodere, ma intanto l’appuntamento olimpico offriva una occasione unica di crescita e di immagine, che gli esponenti politici non si fecero scappare. Risolutivo l’interessamento di due grandi personalità: l’allora ministro del Tesoro Giulio Andreotti, che venne posto alla presidenza del comitato organizzatore dei Giochi, e Giulio Onesti, colui che aveva restaurato il CONI dopo averlo raccolto dalle ceneri del deposto regime fascista. Uno di quegli astri che guardavano benevoli dal cielo offrì loro anche la possibilità di diffondere attraverso la televisione, per la prima volta in tutta Europa, le immagini di una olimpiade estiva.

Giulio Andreotti firma documenti in qualità di Presidente del Comitato Organizzatore; al suo fianco Giulio Onesti, Presidente del CONI

Succedere all’edizione di Melbourne (fuori stagione e un po’ improvvisata) fu un’altra delle tante fortune. Ci voleva poco a superarla in fatto di qualità e di numeri. Oltre 5.000 gli atleti iscritti, in rappresentanza di 84 paesi: tanti in più rispetto ai Giochi australiani, ma anche record assoluto di partecipazione. La vera invasione, comunque, fu quella fatta registrare dal pubblico. Una stima approssimativa parlava di più di un milione e mezzo di spettatori, appagati dall’alto livello tecnico delle gare (basti pensare ai 32 primati olimpici e ai 7 mondiali stabiliti nella sola atletica leggera), ma anche da quella atmosfera gioiosa e spensierata – diremmo da «dolce vita» – che solo in una città come Roma si poteva respirare.

Lo sport italiano volle anch’esso essere all’altezza. Il CONI, stavolta, sostenne la preparazione di atleti e squadre senza risparmiare aiuti economici. Raduni, selezioni, collegiali, esperienze all’estero se era il caso. Per anni non ci fu altro obiettivo da fissare se non quello delle Olimpiadi che venivano ospitate per la prima volta nel nostro paese. Le 36 medaglie del bottino finale (13 d’oro, 10 d’argento e 13 di bronzo) erano in parte il risultato di questa impostazione. Al resto pensarono l’estro e la volontà dei singoli protagonisti, l’aria di casa, il tifo del pubblico; forse anche qui il sortilegio fece sentire i suoi influssi.

Livio Berruti rompe il filo del traguardo nella finale dei 200; alla sua destra lo statunitense Carney: entrambi cadranno a terra nello slancio

Apparve a tutti come una magia, ad esempio, la straordinaria vittoria di Livio Berruti nella finale dei 200 metri. Immagini in bianco e nero che – periodicamente – vengono riproposte a tutte le generazioni: lo scatto in curva dell’occhialuto velocista italiano che sembra non toccare la pista (tanto leggera la falcata delle sue lunghe gambe), l’ingresso in rettilineo preceduto – come segno premonitore – da un volo di colombe bianche, poi l’arrivo davanti a tutti col petto proteso a rompere il filo di lana, fino a sbilanciarsi e cadere, imitato nel ruzzolone (ma in questo caso per avvilimento) dal fuoriclasse statunitense Carney, il grande sconfitto. L’impresa di Berruti non era mai riuscita a nessun atleta europeo; e che non si trattò di semplice fortuna lo testimoniò il tempo: 20”5, record mondiale eguagliato!

Al basket sarebbe bastato molto meno del bene augurante volo di una colomba per riuscire addirittura nell’impresa di conquistare una medaglia. La mancò per un solo canestro, e stavolta l’influsso benefico prese un’altra direzione, perché quel canestro – a quanto pare – la squadra azzurra lo aveva segnato, senza che però ne restasse traccia sul referto. Un mistero mai chiarito… Arrivò comunque un quarto posto del tutto inaspettato, peraltro in un torneo ad altissimo livello, che aveva costretto gli Stati Uniti a schierare la più forte selezione mai vista fino allora e a dare il meglio di sé per avere ancora una volta ragione degli avversari.

Il prof. Carmine “Nello” Paratore, l’allenatore di origine siciliana, proveniente dall’Egitto

L’artefice del miracolo cestistico italiano fu Carmine «Nello» Paratore, un insospettabile ometto che dietro quell’aria da maestro di scuola (con occhiali e baffetti), e dietro i suoi lunghi silenzi, nascondeva un gran temperamento. Veniva dall’Egitto, dove era nato, ma il nonno paterno era di Catania e nella comunità italiana del Cairo aveva maturato le sue esperienze, di uomo, di atleta e di allenatore di basket. Che prima o poi dovesse tornare nella patria dei suoi antenati era scritto nel destino: fece in tempo a lanciare le quotazioni della Nazionale egiziana (oro in un Europeo, quinto posto in un Mondiale, qualificazione alle Olimpiadi di Helsinki eliminando proprio gli azzurri) prima di mettersi, nel ’54, al nostro servizio.

Era stato il neo presidente della FIP Decio Scuri a volerlo. Gli aveva messo in mano il settore giovanile e la Nazionale femminile, ma ben presto lo aveva affiancato a McGregor come assistente per la Nazionale maggiore. Silenzi, lavoro e studio. Aveva seguito il suo «capo» anche nel viaggio a Melbourne, inviati entrambi dalla Federazione per un aggiornamento (in assenza della squadra): quando tornarono, al «rosso» americano venne dato il benservito, a lui l’incarico di sostituirlo.

Le Olimpiadi di Roma erano ancora lontane, ma il compito affidato a Paratore fu tutto in funzione di quella scadenza: di tempo, se voleva, ce n’era abbastanza a disposizione. A un metodico come lui, uno che sapeva costruirsi in palestra i suoi giocatori e le sue strategie, non c’era bisogno di offrire altro. Conosceva bene l’eredità lasciata da McGregor e cosa salvare di quella; il nuovo, invece, si mise a cercarlo girovagando per tutta l’Italia: era soprattutto alla ricerca di giovani che avessero doti fisiche e atletiche, perché la tecnica – sosteneva – si può sempre apprendere e migliorare. Su questi presupposti diede vita nell’estate del ’57 a un collegiale che segnò davvero una tappa fondamentale per l’evoluzione della nostra pallacanestro: un intero mese di ritiro a Fermo, tra le colline marchigiane affacciate sul mare, con ben 70 atleti convocati; allenamenti duri per tutti e sfide continue tra giocatori di uguali caratteristiche, per vedere chi – altra dote per lui indispensabile – avesse più spirito di sacrificio in campo.

La Nazionale italiana di basket alla presentazione ufficiale prima dell’avventura olimpica

In questo percorso di addestramento e di selezione durissima, ci si imbatté – quasi per caso – in due campionati europei, a Sofia nel ’57 e a Istanbul nel ’59. Arrivarono, rispettivamente, un undicesimo e un decimo posto, che potremmo definire deludenti se non sapessimo dello spirito con i quali erano stati affrontati quegli impegni. Intanto però dalla nidiata di Fermo erano emersi i primi giovani interessanti: Gavagnin, Vianello, Lombardi, Velluti. Era intento a provare il prof. Paratore, e a riprovare; il risultato non lo interessava. Ancora allenamenti, raduni; e incontri amichevoli, tanti. In tre anni fece disputare ai suoi 40 partite; le ultime addirittura in Sud America, nel corso di una intensissima tournée, dalla quale sarebbe stata scelta – lontano da occhi indiscreti – la squadra da presentare a Roma.

Alla fine venne filtrata una formazione che si presentava come il giusto compromesso tra il vecchio e il nuovo, tra esperienza e spregiudicatezza. Con un denominatore comune: la voglia di lottare, caratteristica che tutti dovevano avere in ugual misura. Era la formazione che, in qualche modo, rispecchiava l’indole del suo allenatore, il suo senso pratico. Paratore non era né eccessivamente scolastico, né eccessivamente fantasioso. Cercava di attuare una sua filosofia di gioco (il passing game in attacco, ad esempio, col «dai e vai» e il «dai e cambia»), ma ogni cosa – secondo lui – andava sempre adattato alle risorse che si avevano a disposizione. Ecco perché riusciva spesso a tirare fuori il massimo delle potenzialità da ogni giocatore.

Il Palazzetto dello Sport di Piazzale Flaminio, con la tipica struttura della volta: qui la Nazionale disputò le sue prime partite

C’era un solo reduce da una olimpiade: era Achille Canna, giovanissimo esordiente a Helsinki, ormai diventato un veterano. Non il più vecchio, comunque. Il «primato» spettava a Mario Alesini (29 anni) suo compagno nella Virtus Bologna, società dalla quale provenivano altri due giocatori che avevano già da tempo vestito la maglia azzurra: Gianfranco Sardagna e Nino Calebotta. Quest’ultimo era il lungo della squadra con i suoi 2 e 04, fisico gracilino, gambe da uccello, movimenti felpati; era stato già lanciato in Nazionale da Vittorio Tracuzzi, che – sia da compagno di squadra che da allenatore – lo aveva avuto al suo fianco nella Virtus (due scudetti vinti nel ’55 e nel ’56). In realtà, a scoprirlo ancora prima era stato lo stesso Paratore, proprio al Cairo, perché Calebotta, che era nato a Spalato ed era figlio di un funzionario del Ministero degli Esteri, seguiva il padre nei suoi continui trasferimenti per il mondo, Egitto compreso. Paratore aveva avuto appena il tempo di insegnargli i primi rudimenti del basket: fu un piacere per lui ritrovarselo con la maglia azzurra, pedina insostituibile sotto i tabelloni, soprattutto col suo micidiale tiro a uncino.

Ancora più nutrito era il blocco milanese dell’Olimpia, società dove da quattro anni era subentrato il marchio Simmenthal (ed erano stati altrettanti gli scudetti consecutivi, fino all’ultimo del ’60). Da là venivano Sandro Gamba, un combattente (spirito che si sarebbe portato dietro nella sua gloriosa carriera di allenatore); Sandro Riminucci, l’ex ragazzino prodigio di Pesaro, inimitabile nel suo gioco acrobatico; Gianfranco Pieri, grande visione di gioco la sua, e non soltanto per gli occhiali che portava; i più giovani Paolo Vittori (ottimo tiratore) e Augusto Giomo (play emergente). Assieme a questi ultimi due, Paratore portò in Nazionale anche Giovanni Gavagnin (l’altro lungo della squadra, ma arrivava appena a 1 e 99), Gianfranco «Dado» Lombardi e Nane Vianello, altre due bocche da fuoco dalla distanza.

Per scoprire il vero valore della squadra non restava che vederla in campo. Il debutto avvenne il 26 agosto, all’indomani della inaugurazione dei Giochi, al Palazzetto dello Sport del quartiere Flaminio. Sorteggio ingeneroso: bisognava misurarsi subito con i campioni degli Stati Uniti… 

Nunzio Spina

[5 – segue Melbourne 1956, continua  con la seconda puntata di Roma 1960]