Basket e Olimpiadi: Roma 1960
La bella favola degli azzurri!

Un auspicio di de Coubertin… Torneo olimpico: Italia a un passo dal sogno, degna inaugurazione degli impianti… Le storie di Cassius Clay, Wilma Rudolph e Abebe Bikila… [Leggi la 1a puntata]…

Italia-USA al Palazzetto dello Sport: un giocatore americano a canestro invano contrastato da Nino Calebotta

Il sogno di un’edizione delle Olimpiadi a Roma era finalmente diventato realtà. Il primo a coltivarlo era stato lo stesso barone de Coubertin, l’inventore dei Giochi moderni, che fin dai primi del ’900 immaginava un legame con Atene, nel nome del classicismo. «Desideravo Roma – scrisse nelle sue Mémoires – perché soltanto là l’Olimpismo avrebbe indossato la toga sontuosa, tessuta d’arte e di pensiero, di cui io, fino dal principio, volevo ammantarlo». Un debito col passato che aveva atteso più di mezzo secolo per essere ricambiato, ma in compenso lo spirito decoubertiano era tornato ad aleggiare.

In Italia tutti avevano percepito la straordinarietà dell’evento, organizzatori, atleti, pubblico. E tutti erano ormai pronti a viverlo con grande partecipazione. La Nazionale azzurra di basket, per tre anni, non aveva avuto altri pensieri per la testa. Al suo nuovo allenatore, Nello Paratore, la Federazione aveva affidato il compito di allestire una squadra che fosse in grado di non sfigurare – almeno quello – di fronte ad avversari che per scuola e tradizione ci erano stati sempre superiori. Una mancata qualificazione e una rinuncia, negli ultimi due appuntamenti olimpici, non avevano certo riscattato il nostro prestigio. E quindi bisognava rimboccarsi le maniche, impegnandosi in un duro e oscuro lavoro di allenamenti e di selezione. Dopo quei lunghi anni di attesa, il momento era arrivato.

Una fase del secondo incontro Italia-USA, al Palazzo dell’EUR: Paolo Vittori si fa largo nella stretta difesa avversaria

Due nuovi impianti di zecca, il Palazzetto dello Sport nel quartiere Flaminio e il Palazzo dello Sport all’EUR, erano stati predisposti per ospitare il torneo olimpico di basket. Una cornice sicuramente degna del grande seguito che questo sport aveva guadagnato negli ultimi tempi. Sedici le rappresentative partecipanti, e stavolta c’erano davvero tutte le migliori, o comunque quelle che erano riuscite a superare le qualificazioni pre-olimpiche (che all’Italia erano state risparmiate in qualità di paese ospitante). Dal continente americano erano approdati a Roma, oltre agli USA, il Brasile vincitore dell’ultimo mondiale del ’59 e il solito Uruguay; nel nutrito gruppo delle europee c’erano, oltre all’URSS, le altre temibili formazioni dell’Est, Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria, Polonia, più l’emergente Jugoslavia; due sole le rappresentanti del continente asiatico, Giappone e Filippine.

Ognuno dei quattro gironi eliminatori sarebbe stato – sulla carta – proibitivo per gli azzurri, ma essere inclusi proprio in quello degli Stati Uniti (assieme a Ungheria e Giappone) e ritrovarseli subito di fronte nella partita d’esordio non fu proprio il massimo dell’incoraggiamento. Col senno di poi, un impatto così forte era proprio quello che ci voleva per scaricare le tensioni della vigilia, e affrontare meglio gli incontri che si dovevano vincere a tutti i costi. Con gli USA la sconfitta fu netta, 88 a 54, ma sicuramente meno di quanto si potesse prevedere, specie dopo un primo tempo chiuso sul 42 a 17, giocato con le gambe tremanti e la mente distratta dall’emozione. Nella ripresa cominciarono tutti a tirare fuori la grinta che li avrebbe poi accompagnati in ogni partita, giocando quasi alla pari con i più forti avversari: 46 a 37 il parziale, con i canestri dalla distanza del diciannovenne Lombardi e gli uncini di Calebotta. Si capì allora che Paratore e i suoi non avevano nessuna intenzione di fare da comparse.

La formazione USA di basket schierata sul gradino più alto del podio

La seconda partita, il giorno dopo contro l’Ungheria, fu quella che risultò determinante. Con la squadra magiara, già vincitrice di un Europeo nel ’55, l’Italia non aveva mai vinto; in più, gli avversari erano reduci dal successo col Giappone con quasi 30 punti di scarto. C’era bisogno di un’impresa, che arrivò davanti agli occhi del pubblico record del Palazzetto e dei tanti telespettatori reclutati per la prima diretta della Nazionale di basket. Partita combattuta e poi vinta per 5 punti (72 a 67) con i soliti canestri di Lombardi, ma anche il notevole contributo di Pieri (15 punti) e di Gavagnin. Il 29 agosto partita decisiva col Giappone; altra battaglia e altra prodezza, una vittoria che destò impressione soprattutto per il suono del punteggio finale: 100 a 92. Era la prima volta che si arrivava su quel tetto!

Veniva così superato il turno, col secondo  posto nel girone alle spalle degli USA, che da parte loro avevano inflitto un 125 a 66 al Giappone e un 107 a 63 all’Ungheria. Numeri che davano l’idea della forza di quella squadra, ancora una volta rivelatasi imbattibile. Tra le tante stelle della formazione statunitense meritano di essere ricordati Oscar Robertson (play-maker di colore, uno dei più grandi di tutti i tempi, famoso soprattutto per i suoi assist), Jerry West (guardia con grandi doti di tiratore e passatore), Jerry Lucas (ala di 2 e 02) e Walt Bellamy (centro di 2 e 11). I critici l’hanno giudicata la formazione più forte mai schierata in un torneo olimpico, seconda forse solo al famoso Dream Team di Barcellona ’92, formato però da quasi tutti professionisti.

Cassius Clay viene proclamato vincitore della sfida che vale l’oro dei mediomassimi

Nel girone di semifinale, l’Italia doveva vedersela con Brasile (che aveva fino allora vinto tutte le partite, superando anche l’URSS), Cecoslovacchia e Polonia. Si aprivano nel frattempo, per gli azzurri, le porte del «Palazzone»: dai 5.000 posti del Palazzetto ai 17.000 dell’impianto dell’EUR, mentre le immagini TV cominciavano a coinvolgere sempre più gente. La partita col Brasile era destinata a lasciare uno strascico di polemiche. Dieci punti di vantaggio per la formazione di Paratore alla fine del primo tempo, con Lombardi e Alesini scatenati. Nella ripresa i brasiliani (con i fuoriclasse, Amaury, Wlamir e Rosa Branca), si rifecero sotto, e alla fine del tempo regolamentare il punteggio era di parità, 70 a 70. Si andò al supplementare tra le proteste di Paratore, che accusò il «tavolo» di aver fatto sparire dal referto un canestro azzurro. Strano che su questo episodio, in tempi in cui c’erano già le immagini TV, non si riuscì anche in seguito a fare piena chiarezza. Fatto sta che nel supplementare la rimonta dei brasiliani andò avanti fino al successo finale: 78 a 75.

Fu in quel momento, comunque, che l’Italia mostrò di essere veramente una squadra solida. Avrebbe potuto risentire psicologicamente della rocambolesca sconfitta col Brasile, e invece trovò ancora la freschezza mentale e fisica per aggiudicarsi le altre due partite, contro avversari che spesso e volentieri ci avevano liquidato nei campionati europei: Cecoslovacchia (77 a 70) e Polonia (74 a 68). Si entrava così nel girone finale a quattro: un risultato storico, che meritava già di essere festeggiato. Anche perché di più sarebbe stato impossibile sperare: col Brasile, infatti, restava purtroppo valido l’incontro di semifinale, mentre con le altre finaliste, USA e URSS, il pronostico era praticamente chiuso. L’unica soddisfazione in più poteva essere quella di giocare a testa alta questi ultimi due confronti, e gli azzurri riuscirono a prendersela. Con l’Unione Sovietica si uscì battuti di solo 8 punti (78 a 70), mentre con gli Stati Uniti (112 a 81 il finale) ci si poté consolare con un primo tempo giocato alla pari – che scatenò l’entusiasmo del pubblico nelle tribune del Palaeur – e col passivo più pesante inflitto agli americani nell’intero torneo.

Wilma Rudolph e Livio Berruti fotografati insieme per le vie di Roma durante le Olimpiadi

Intanto, lo scontro decisivo per l’oro era già stato archiviato in semifinale a favore degli Stati Uniti, nell’unica partita in cui non avevano superato i cento punti: 81 a 57 a spese dell’URSS. Bronzo al Brasile, grazie alla vittoria sull’Italia di cui si è detto.

Il basket italiano guadagnò moltissimo dalle Olimpiadi di Roma e diede altrettanto in cambio. L’importanza dell’evento aveva sicuramente fornito delle motivazioni così forti da creare all’interno della squadra e attorno a essa un clima di impegno e di euforia fino allora inespressi. Forse fu proprio quello il momento in cui, nel nostro paese, questo sport usciva definitivamente dalla sua tana, per diventare popolare a tutti gli effetti. L’organizzazione dei Giochi non avrebbe potuto augurarsi di meglio: al Palazzetto era di scena anche il sollevamento pesi e al Palazzo dello Sport il pugilato, ma senza dubbio era stato il basket a celebrare nella maniera più degna l’inaugurazione di questi nuovi impianti.

Il bronzo sfiorato dal basket aveva il sapore di un grande successo per lo sport italiano. Al pari, si può dire, dell’oro conquistato nella pallanuoto, che ai successi però ci aveva abituato fin troppo bene. In quel «Settebello» non c’era più Cesare Rubini, dedito ormai soltanto al ruolo di allenatore di basket e a fare incetta di scudetti sulla panchina del Simmenthal Milano.

L’arrivo solitario e trionfale di Abebe Bikila (a piedi scalzi) nella maratona: le luci della sera risaltano l’Arco di Costantino e il Colosseo

Le prodezze di Lombardi, di Calebotta, di Alesini, di Pieri, non erano state da meno da quelle dei ciclisti azzurri, che si erano aggiudicati cinque medaglie d’oro (due con Sante Gaiardoni), degli schermidori (due ori, un argento e tre bronzi, e c’era ancora Edo Mangiarotti con i suoi 41 anni compiuti), dei fratelli Raimondo e Piero d’Inzeo (rispettivamente oro e argento nell’equitazione), dei pugili (3 ori, 3 argenti e un bronzo). Tra queste ultime medaglie, brillò l’oro nei pesi welters dell’agile Nino Benvenuti, nativo di Isola d’Istria (oggi in terra di Slovenia), che fece intravedere le qualità da futuro da campione del mondo.

Roma olimpica fu, giorno per giorno, una fonte inesauribile di storie, di personaggi, di aneddoti. Tanto per restare agganciati alla boxe, non si può non citare il successo di un altro pugile, destinato a conquistare da professionista diversi titoli mondiali (vinti e rivinti). Coloured americano, diciotto anni appena, Cassius Clay giocherellava sul ring, ma quando lasciava partire il suo pugno era dolori: vinse l’oro nei mediomassimi, poi – dopo avere sposato la fede musulmana – divenne quel Muhammad Alì capace di abbattere, nei pesi massimi, avversari del calibro di Frazier e Foreman. Sarebbe tornato sulla scena delle Olimpiadi a 36 anni di distanza, il giorno della inaugurazione dei Giochi di Atlanta: con la mano tremolante e il suo imponente fisico ormai piegato dal morbo di Parkinson, accese il braciere come ultimo tedoforo. Il ricordo di Roma, in quegli attimi, tornò a farsi vivo.

Generosa di grandi protagonisti anche l’atletica leggera. Destò molto clamore (e commozione) la meravigliosa avventura della ventenne statunitense Wilma Rudolph. Fisico da modella, due gambe affusolate, correva in pista con una grazia insolita, che gli valse il soprannome di «gazzella nera». Era la ventesima di ventidue figli in una famiglia poverissima del Tennessee; da ragazzina era stata colpita alla gamba sinistra da una forma di poliomielite, che la costrinse poi – per anni – a portare un apparecchio correttivo, mentre la mamma la accompagnava due volte la settimana per la fisioterapia in un ospedale distante 40 km da casa. Wilma riuscì a vincere la sua battaglia, e a Roma fu in grado di conquistare addirittura la medaglia d’oro in 3 gare di velocità: 100, 200 e staffetta 4×100. Ne rimase incantato lo stesso Livio Berruti, che in quei giorni visse con lei una tenera, seppure fugace, storia d’amore.

Sul tabellone luminoso dell’Olimpico, il commiato di Roma con l’arrivederci alle prossime Olimpiadi

Le immagini più suggestive dell’atletica, tuttavia, sarebbero arrivate al di fuori della pista. Sotto un cielo stellato, con i riflettori che illuminavano l’Appia Antica, un soldato della Guardia imperale etiopica tagliò solitario il traguardo dell’Arco di Costantino: si chiamava Abebe Bikila. Il pubblico restò sbalordito nel vederlo correre a piedi scalzi, e lo applaudì come un grande eroe. Era il trionfo di un atleta africano, l’inizio di una nuova fase storica.

I Giochi si chiusero con il successo complessivo dell’Unione Sovietica, che ancora una volta superò gli Stati Uniti nella conquista delle medaglie. L’Italia invece superò se stessa, piazzandosi addirittura alle loro spalle. La città di Roma, da parte sua, aveva vissuto una favola straordinaria. Era stato tutto così bello che, tra le fiaccole accese della cerimonia di chiusura, molti piansero per la tristezza quando sul tabellone luminoso dell’Olimpico comparve la scritta «Arrivederci a Tokio  1964»!

Nunzio Spina

[6 – segue la prima parte di Roma 1960, continua con Tokyo 1964]