Mondiali di basket: Rio de Janeiro 1963
Bis Brasile, timido esordio azzurro

Sempre la politica di mezzo… Il Maracanãzinho torna a ospitare i verde-oro… Walmir Marques mvp… Tre sconfitte Usa… Italia: 7ª o ultima del girone?… 

La Nazionale italiana in Brasile, alla sua prima partecipazione a un Mondiale, nel ’63. Da sinistra: Dal Pozzo, Gavagnin, Vianello, Masini, Gatti, Riminucci, Vittori, Bertini, Cescutti, Lombardi, Pellanera, Giomo Augusto (dal periodico “Pallacanestro, 1963”).

Finalmente Italia. La Nazionale azzurra non poteva più defilarsi, né accampare scuse. Alle Olimpiadi di Roma del ’60 si era affacciata irriverente sulla ribalta intercontinentale, conquistando un clamoroso quarto posto alle spalle dei colossi USA, URSS e Brasile. Per cui partecipare al campionato mondiale – più che un diritto da rivendicare – era un dovere al quale non poteva più sottrarsi.

Rispose presente alla edizione numero quattro, e per la verità fu trascinata anche da circostanze impreviste. Il torneo avrebbe dovuto disputarsi a Manila, capitale delle Filippine, nel dicembre del 1962, riportando così la scadenza all’anno pari, ogni quattro. Ma se la politica aveva rovinato sul più bello la festa dell’URSS nel ’59 a Santiago del Cile, stavolta mise di mezzo i suoi bastoni prima ancora di cominciare. Il governo asiatico, infatti, aveva deciso di negare i visti ai giocatori dei paesi socialisti (Unione Sovietica e Jugoslavia); limitazione inaccettabile per la FIBA, che decise di cambiare rotta e di approdare nuovamente in Sudamerica, nella casa dei campioni uscenti del Brasile. L’inevitabile rinvio fece slittare l’inizio del torneo al 10 maggio, data decisamente più congeniale per l’Italia, che non si trovò così costretta a interrompere il campionato.

Nello Paratore urla disposizioni ai suoi dalla panchina; al suo fianco Lombardi (dal periodico “Pallacanestro, 1963”).

Il Maracanãzinho era là, con la sua cupola emisferica e le enormi tribune a cerchio, pronta ad accogliere per la seconda volta la manifestazione. Stavolta, però, la grande arena di Rio lasciò accesi i suoi riflettori solo per il girone finale a sette. Quelli di qualificazione si svolsero nelle città di Belo Horizonte, Curitiba e San Paolo (in quest’ultimo l’Italia); il girone di consolazione a Petropolis. Assenti le Filippine (per squalifica) e Formosa (per protesta), l’Asia era rappresentata solo dal debuttante Giappone.

Che il trionfo della squadra del Brasile – il secondo consecutivo, ma questo decisamente più genuino – fosse condizionato dall’infuocato clima del Ginasio do Maracanãzinho era fuori di dubbio. La Nazionale verde-oro, come già sottolineato in altre occasioni, giocava praticamente per il pubblico, e dal pubblico pretendeva la spinta per esaltarsi. Se erano in 30.000 a sostenerla, il rapporto reciproco risultava vincente.

Stavolta, oltre al gioco spettacolare, alle schiacciate a canestro, al palleggio funambolico di Wlamir Marques (a lui il titolo di MVP), alle iniziative personali di Amaury e del diciannovenne Ubiratan (che avremmo rivisto, cresciuto, in Italia), ci fu anche un pizzico di sagacia tattica. Arrivò così il filotto di tutte vittorie nel girone finale, dove il Brasile si accomodò di diritto, essendo paese organizzatore. Battute, nell’ordine, Portorico, Italia, Jugoslavia, Francia, URSS e infine USA, in quella che si pensava potesse risultare una finale per l’oro, e che invece fece registrare la terza sconfitta per la rappresentativa statunitense (mai così tante in una manifestazione intercontinentale) e la sua prima storica esclusione dal podio.

In azione gli azzurri (in maglia bianca) Vittori (a sinistra) e Lombardi, contro la Francia: i loro punti (16 e 15 rispettivamente) non sono bastati a evitare la sconfitta (dal periodico “Pallacanestro, 1963”).

A dir poco raccogliticcia la selezione a stelle e strisce, con tre veterani dei Phillips Oilers Oklahoma (tra cui l’ala Don Kojis, un futuro in NBA), tre militari e gli altri presi qua e là nelle High School (come il centro Willis Reed, anche lui poi in NBA). Eppure questi dilettanti furono scalzati dal podio di Rio dopo aver perso di 2 con la Jugoslavia, di 1 con l’URSS e di 4 col Brasile. Come dire che sarebbe bastato poco, agli States, per trasformare ancora una volta una squadra (per loro) modesta in una protagonista da Mondiale.

La scena in questa occasione fu rubata – o meglio, quel poco che venne concesso dai brasiliani – dalle squadre dell’Est Europa (continente per la prima volta sul podio). Argento alla Jugoslavia, cresciuta tantissimo rispetto alla prima apparizione in Argentina nel ’50. In panchina Aza Nikolic, in campo Radivoj Korac (due nomi che parlano da soli) e, tra gli altri, Nemanja Duric (primo straniero della Reyer Venezia nel ’67-’68) e Trajko Rajkovic (miglior marcatore del campionato italiano con Livorno nella stessa stagione). Gli slavi superarono di due (69 a 67) l’Unione Sovietica, guidata dal maresciallo Gomelskij (altra icona del basket europeo) e sorretta dalle lunghe leve di Aleksandr Petrov e Viktor Zubkov.

E l’Italia? Paratore portava oltre oceano una formazione ringiovanita rispetto a Roma ’60, che peraltro era stata l’ultima apparizione degli azzurri in una competizione ufficiale. I reduci di quella incredibile esperienza erano Riminucci, Vianello, Vittori, Lombardi, Gavagnin, Giomo Augusto; i nuovi, Pellanera, Cescutti, Bertini, Gatti, Masini e Dal Pozzo. Il lungo stop (a parte qualche amichevole) non aveva permesso un buon rodaggio, e peraltro in quell’anno, nell’arco di poco più di quattro mesi, andavano affrontati Mondiali, Giochi del Mediterraneo ed Europei.

I cestisti brasiliani alzano per la seconda volta consecutiva il trofeo del titolo mondiale (dal periodico “Pallacanestro, 1963”).

L’inizio fu tanto promettente da rivelarsi poi illusorio. Inserita nel girone degli USA (e quindi un solo posto a disposizione per la qualificazione), la Nazionale azzurra fu subito risolutiva, sconfiggendo nettamente nelle prime due giornate Argentina (91 a 73, nonostante i punti avversari di Alberto De Simone che l’anno dopo venne a Cantù) e Messico (90 a 82), con uno spietato Paolone Vittori (20 e 31 punti rispettivamente) e un combattivo Franco Bertini (il più positivo alla fine). Nella partita con gli Stati Uniti, qualificazione già in tasca, arrivò un’onorevole sconfitta (87 a 77), con il debuttante pivot Massimo Masini tutt’altro che in soggezione.

Poi più nulla nel girone finale. Subito il Brasile, contro il quale poco si poteva chiedere (81 a 62); a seguire, la Jugoslavia, e qui invece ci fu il vero crollo psicologico, dopo un +14 nel primo tempo, diventato un –11 alla fine (85 a 74) sotto i colpi del cecchino Ivo Daneu. L’occasione buona poteva venire con la Francia o con Portorico (evitabili le sconfitte, rispettivamente di 4 e di 3), perché, come prevedibile, era impossibile sperare negli scontri con l’URSS (83 a 63) e con gli USA (stavolta più cattivi con noi, 101 a 73).

C’erano due modi di interpretare il comportamento degli azzurri: settimi al loro esordio mondiale oppure ultimi del girone finale. Nella stampa prevalse quest’ultima visuale; per cui si parlò di “partecipazione ingloriosa”, se non addirittura di “catastrofe”, con critiche feroci al tecnico Paratore (osannato a Roma, veniva ora incolpato di avere sbagliato tutti i cambi nelle partite), ai giocatori (incapaci di reagire alle prime difficoltà), alla stessa Federazione (che avrebbe dovuto garantire più spazio e mezzi alla preparazione della Nazionale). In compenso, tornò a casa con una valigia piena di complimenti l’arbitro Luigi Cicoria.

 

Nunzio Spina

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