Mondiali: Rio de Janeiro ’63
Il racconto di… Vittorio Dal Pozzo

Un portiere mancato… La carriera in giro per l’Europa… La valigia rubata… La scazzottata tra argentini e brasiliani… La macumba…

Vittorio Dal Pozzo, col pallone in mano, sorride a un compagno dall’alto dei suoi 2 metri e 08 (dal periodico “Pallacanestro, 1962”).

Vittorio Dal Pozzo (detto “Ciccio”) è nato a Genova il 13 marzo 1940. Cominciò a giocare a basket all’età di 15 anni (quando era già alto 1,98), per la delusione – lui dice – provata come portiere di calcio in una partita: tre gol rasoterra subìti negli ultimi minuti, con la propria squadra in vantaggio 2 a 0! A 18 anni esordio nella seconda serie nazionale col CUS Genova; nel ’61, nel corso di un raduno del prof. Paratore a Fermo, riservato solo ai giovani pivot, lo adocchiò l’assistente Tonino Costanzo, che lo convinse a trasferirsi a Roma nelle file della Stella Azzurra. Quattro stagioni in massima serie, poi furono motivi famigliari e di lavoro a costringerlo a cambiare ancora città: divenuto dirigente della Pirelli, si accasò alla Pallacanestro Milano, sponsorizzata All’Onestà, con cui disputò altri tre campionati in A. Le successive militanze cestistiche seguirono la rotta dei trasferimenti per attività professionale: a Genova, con l’Italsider in serie B, addirittura in Germania con l’Eintracht di Francoforte e poi in Austria, a Vienna, per concludere a Napoli nel ’73 con la Partenope. Pivot di 2 e 08, faceva valere la stazza notevole del suo fisico sotto canestro, e aveva nel gancio ambidestro dall’area dei tre secondi il suo colpo migliore. Esordio in Nazionale con Paratore nel ’62, in un incontro amichevole a Napoli contro l’Argentina; ma fu un’altra amichevole, contro la Francia a Milano l’anno dopo (con un vincente tap in finale) ad aprirgli le porte per la convocazione al Mondiale del ’63 a Rio de Janeiro. Nel suo curriculum azzurro, anche due Universiadi.

«Sapete come cominciò la mia avventura nel Mondiale in Brasile del ’63? Con il furto della mia valigia appena arrivati all’aeroporto di Rio! Eravamo tutti emozionatissimi, alcuni di noi, io per primo, non avevamo mai messo piede nell’altra parte del mondo; c’era anche un gruppo di italiani immigrati che ci accolse con cori e abbracci; ci schierammo davanti l’ingresso dell’aeroporto per scattarci vicendevolmente le foto di rito, e così indaffarati non ci curammo più dei bagagli lasciati lì a terra… L’unica valigia rubata fu la mia; per fortuna lasciarono la borsa con le divise della Nazionale, che ognuno aveva per suo conto, e così mi dovetti arrangiare solo per gli indumenti intimi e per quelli borghesi… Ma non fu facile, date le mie misure!».

Ragusa, 1962; una rappresentativa azzurra impegnata in un torneo amichevole. Dal Pozzo è il primo in alto a sinistra, dopo il prof. Paratore; sarà l’unico di quella formazione a partecipare al Mondiale di Rio del ’63 assieme ad Augusto Giomo (ultimo in piedi a destra) (da archivio personale Dal Pozzo).

«A Rio partecipammo all’inaugurazione, in quello splendido Maracanãzinho, poi partimmo subito per il girone di qualificazione a San Paolo… Il prof. Paratore, che come è risaputo aveva una paura matta dell’aereo, diffidando della sicurezza dei voli interni ci costrinse a un viaggio in pullman di nove ore! Eppure giocammo benissimo le prime partite, con Argentina e Messico, e anche con gli Stati Uniti (pur perdendo), guadagnandoci così il ritorno a Rio per la fase finale… Mi è rimasta impressa soprattutto la partita col Messico: erano accorsi non so quanti argentini a inveire spudoratamente contro di noi, perché in caso di nostra sconfitta la loro squadra si sarebbe potuta qualificare; ma si fecero sentire anche i nostri connazionale di San Paolo, e tra le opposte tifoserie finì a scazzottata in tribuna…».

«L’atmosfera del Maracanãzinho aveva davvero qualcosa di magico, peccato che non l’abbiamo potuta sfruttare a nostro vantaggio… Ci toccò subito il Brasile, che aveva giocatori di gran classe, ma anche un pubblico da far tremare; pensare che al primo fischio contro di loro, gli arbitri furono fatti oggetto di lancio di pomodori! Poi la Jugoslavia: e come facevi a batterla? C’era quel Korac che era davvero immarcabile, lo chiamavamo il “diavolo rosso”, è stato il giocatore che più mi ha impressionato… La partita con la Francia, ecco, quella non dovevamo perderla! Potevamo arrivare quinti, non settimi! Dopo ci fu l’Unione Sovietica, che era un altro squadrone insuperabile, anche se proprio quella fu la partita in cui, a detta dei miei compagni, mi sono comportato meglio… Con gli Stati Uniti, neanche a parlarne; quando si arrivò all’ultimo incontro col Portorico, eravamo già stati presi dallo scoramento…».

«L’esperienza di quel Mondiale, comunque, fu straordinaria per me, anche al di là dell’evento sportivo… Tra le tante cose, ricordo l’emozione (e anche la paura) che provai quando un gruppo di noi andò a visitare una favela a Rio; eravamo stati tra l’altro invitati ad assistere addirittura a una macumba: vidi con i miei occhi una bella ragazza andare in trance e trasformarsi in un mostro! Alla fine restammo talmente impressionati che, quando uscimmo dal locale, scappammo di corsa da quelle baracche…»

a cura di

Nunzio Spina

 

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