Mondiali di basket: Manila ’78
Il racconto di… Dino Meneghin

La conferma del quarto posto… «Siamo stati dei polli!»… I giganti delle altre squadre da marcare… La vittoria sugli Usa…

Dino Meneghin è nato ad Alano di Piave, in provincia di Belluno, il 18 gennaio del 1950. Esordio in Nazionale a 16 anni, in un torneo in Germania Ovest, convocato dal prof. Paratore. Entrò da titolare con Giancarlo Primo nell’Europeo del ’69 a Napoli, e da allora le sue presenze azzurre si sono protratte, ininterrottamente, per ben 15 anni (negli ultimi cinque, con coach Sandro Gamba): in totale, 8 Europei, 4 Olimpiadi, 2 Mondiali (Lubiana ’70 e Manila ’78). Occupa il secondo posto nella graduatoria degli azzurri, sia per le presenze (271, dopo Marzorati), sia per i punti (2.947, dopo Antonello Riva). È stato un pivot modello, grazie alle sue doti fisiche (204 cm di potenza e armonia), a quelle tecniche (l’anticipo e il tagliafuori in difesa, l’uno contro uno e la buona mano in attacco), a quelle caratteriali (grinta e voglia di lottare sempre). Bandiera dell’Ignis Varese (15 stagioni) e poi anche dell’Olimpia Milano (dieci), con un totale di 12 scudetti e 14 Coppe tra europee e intercontinentali; tre stagioni anche a Trieste, prima di chiudere la carriera a 44 anni. È l’unico giocatore italiano a essere entrato (nel 2003) nella prestigiosa Naismith Hall of Fame. Dal 2010 anche nella FIBA Hall of Fame.

Dino Meneghin ha partecipato a due Mondiali (’70 e ’78), quattro Olimpiadi e otto Europei. Unico giocatore italiano a essere entrato nella Naismith Hall of fame (dal sito “bellunesinelmondo.it”).

«Siamo andati a Manila nel ’78 dopo avere saltato una sola edizione del Mondiale, ma nel frattempo erano trascorsi otto anni da Lubiana, e naturalmente molte cose erano cambiate nella Nazionale. Non parlo solo di giocatori, che ovviamente erano quasi tutti nuovi rispetto ad allora (credo che i reduci fossimo solo Bariviera e io), ma anche di gioco. Nonostante ci fosse ancora Giancarlo Primo in panchina, la squadra aveva una mentalità leggermente diversa, diciamo un po’ più orientata verso l’attacco. Del resto, Primo non imponeva in maniera rigida la sua filosofia, ma teneva in conto sia le caratteristiche dei propri giocatori (che erano cambiate), sia quelle degli avversari…»

«A Manila abbiamo confermato il quarto posto di Lubiana, che per me era un ottimo piazzamento, ed è un parere che mi sento di ribadire sempre più col passare del tempo… Solo che allora lo ottenemmo perdendo la finale per il bronzo, e quindi è chiaro che ci lasciò con l’amaro in bocca… Se poi penso a come abbiamo buttato via quella finale col Brasile… Siamo andati in vantaggio a tre secondi dalla fine col canestro di Bonamico, e a quel punto cosa abbiamo fatto? Convinti di avere già vinto, abbiamo permesso a Marcel di andare avanti indisturbato… Ho ancora davanti gli occhi la scena: io ero rimasto sotto il canestro avversario a ostacolare la rimessa, rientrando in difesa vedevo di spalle Marcel avanzare e poi tentare il tiro da metà campo; mi son detto “Mica segnerà da là?”… Infatti, palla dentro, esultanza loro, noi a guardarci increduli… Possiamo dirlo, siamo stati proprio dei polli!»

Manila ’78: Italia-Cina. Il taglia-fuori di Meneghin rende inoffensivi i 2 e 28 del gigante Mu Tiezhu. Alle loro spalle, Marzorati (da “Giganti del Basket”, n° 10, 1978).

«Comunque, ripeto, ritrovarci al quarto posto, ancora una volta alle spalle della Jugoslavia (che oltre a Cosic, aveva due grandi tiratori come Kicanovic e Dalipagic), dell’Unione Sovietica (con i soliti Sergej Belov e Zarmuchamedov) e dello stesso Brasile (con i nuovi fuoriclasse Marcel e Oscar), è stato secondo me un risultato eccezionale… Purtroppo, sono le medaglie che rimangono impresse nella storia, mentre il quarto o il quinto posto (e noi ne abbiamo collezionati tanti) vengono per lo più criticati e poi magari cancellati…»

«Certo, otto anni prima, a Lubiana, quel quarto posto alle spalle delle stesse squadre era stato accolto con più entusiasmo… Avevamo battuto per la prima volta gli Stati Uniti e non c’era stata una finale, quindi un’atmosfera ben diversa… Quella volta non abbiamo avuto nulla da rimproverarci; Primo era riuscito in breve tempo a dare una propria identità ad una squadra ringiovanita e rinnovata dopo Città del Messico, e ci faceva lavorare come dei pazzi per imprimere sul gioco il suo marchio di fabbrica, e cioè che la difesa viene prima di tutto, soprattutto se hai avversari più forti da affrontare…»

Lubiana, 23 maggio 1970. Il ventenne Meneghin fa sentire i suoi gomiti ai sovietici Volkov (11) e Melescenko (7) (da “Giganti del Basket”, n° 6-7, 1970).

«Io avevo ancora vent’anni, ero il più giovane della squadra, ma l’Ignis Varese mi aveva già svezzato, abituandomi alle battaglie in campionato e in Coppa… Ricordo soprattutto i giocatori sui quali mi è toccato difendere: il gigante sovietico Andreev, il cecoslovacco Zidek, lo statunitense Sillimann (che Primo mi ordinò di marcare d’anticipo senza fargli ricevere palla), e soprattutto lo jugoslavo Kresimir Cosic; lui era il mio idolo, cercavo di imitarlo in tutto, nella tecnica e nell’atteggiamento in campo, addirittura un anno mi sono fatto crescere il pizzetto come il suo… Ecco, per me marcare questi campioni e riuscire a contrastarli, ostacolandoli al tiro o togliendo loro qualche rimbalzo, era già un motivo di soddisfazione… Poi, se venivano anche i canestri in attacco, bene (è stato il terzo miglior marcatore della squadra, 10,8 di media, n.d.r.)…»

«Il flash più piacevole del Mondiale di Lubiana è naturalmente quello della vittoria sugli Stati Uniti… Sì, d’accordo, non erano giocatori NBA, ma era pur sempre una squadra di livello superiore, e comunque non l’avevamo mai battuta… Per noi è stato come infrangere un tabù, ecco perché ci furono quelle scene di esultanza a fine partita da parte di tutti (tranne Renzo Bariviera, proprio l’autore del canestro vincente, che se ne rimase zitto e tranquillo, ma questo faceva parte del suo carattere)… In quella squadra USA c’erano comunque giocatori validi, alcuni di questi li conoscevamo già dal nostro campionato, altri si sarebbero affermati… Come ad esempio Bill Walton, allora diciassettenne, giocava poco o niente, talmente magro e dinoccolato che quasi lo prendevamo in giro, e invece sappiamo cosa è poi diventato. L’ho rincontrato in occasione del premio internazionale “Hall of Fame”, e sorridendo abbiamo ricordato quella sua prima esperienza nel Mondiale…»

 

 

a cura di

Nunzio Spina

 

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