Tony Peluso, l’insuperabile difensore della Grifone

Per tre anni, Catania partecipò alla Serie A. Parliamo di oltre 60 anni fa, quando la squadra si chiamava As Grifone e il suo torneo era in realtà la seconda serie, sotto il campionato delle “Elette”. Era una squadra siciliana al 100%, gli stranieri venivano da Trapani o Ragusa, più l’avventuriero Enrico Santi portato da Venezia da coach Amerigo Penzo. Erano ragazzi passati dalla Promozione al quintetto in pochi mesi, eppure che riuscirono a salvare la categoria vincendo due spareggi di fila; al terzo, caddero senza rialzarsi più.

La squadra della Garden City (archivio Antonio Peluso)

Possiamo considerare Tony e Zezè Peluso stranieri. Nati a Palazzolo Acreide (il paese di Pippo Fava, nel siracusano), cresciuti in Libia, dove il padre di Tony gestiva degli allevamenti e altre attività commerciali. Nel 1957, entrambi si trasferirono a Catania. «Avevo 20 anni e decisi di studiare farmacia – ricorda Antonio, che ora è in pensione –. Nel basket avevo una discreta esperienza: in Libia giocavo con la Garden City, una squadra multietnica di Tripoli che vinse per quattro anni di fila il campionato. In squadra c’eravamo io, Zezè e Bruno Cosentino, futuro ambasciatore; l’allenatore era l’ebreo Rubèn. Giocavamo anche amichevoli internazionali: ne ricordo a Malta e anche a Catania. Intanto, facevo l’atleta sui mille metri e allenai anche una squadra femminile».

L’approdo alla Grifone Catania fu quasi casuale: «Abitavo in piazza Bovio con mio cugino – prosegue Tony –. Ci mettemmo a camminare per via Umberto e passammo davanti a Savia. Subito dopo, ecco la sede della Grifone. Era un circolo, c’era una nuvola di fumo e tanta gente che giocava a carte. Lì conoscemmo il professore Alberto Di Blasi che ci disse: “Domani tornate, vi farò trovare l’allenatore”. Altri non era che Gigi Mineo: in fretta ci tesserò. Non dimenticherò una delle prime partite: io ero specialista di rimbalzi e difesa, così a Nizza di Sicilia mi diede l’incarico di marcare Cintioli, il migliore dei loro. Facevo il “cane”: non lo mollavo. Lui uscì per cinque falli dopo che l’avevo fatto innervosire per tutta la gara!»

Tony Peluso (archivio Antonio Peluso)

La squadra disputava la Serie C con la velleità di vincerla. Ci riuscì, conquistando lo spareggio contro Reggio Calabria. La città mancava dalla seconda serie dal ’41 e per 16 anni non era riuscita ad avere una squadra degna del palcoscenico nazionale. «Di quello spareggio, ricordo un accesissimo diverbio con i locali alla fine della partita – prosegue –. In tribuna c’è Gaetano Marzullo, fratello del mio compagno Elio, che è nel mezzo del caos; io e lui abbandoniamo il campo e andiamo in soccorso. Gaetano scriverà su un suo libro, anni dopo: “Tony con riflessi da giaguaro, scansò una pericolosa coltellata!”»

Non si rischiava sempre la vita. Ci sono più ricordi indelebili: «Abbiamo fatto i CNU a Pisa, Bologna e due a Merano, più a Catania – riprende Antonio Peluso –. A Pisa ci scontrammo su un ponte sull’Arno con i giocatori del Cus Bologna. “Ci rivediamo domani!” gridarono. Noi tornammo con la mischia della squadra di rugby! Con noi c’era Carmelo Palumbo, dirigente del Cus e arbitro di basket: si iscrisse alla lotta per venire gratis. Voleva autoschienarsi al primo turno perché aveva paura di farsi male, ma noi andammo dall’avversario presentandolo come fortissimo e così l’altro ebbe paura e si autoschienò prima di Carmelo!»

La Grifone 1957-’58 (archivio Antonio Peluso)

Non si guadagnava molto, ma qualche soddisfazione i giocatori se le tolsero: «L’unico che prendeva soldi erano Vittorio Guarnotta di Trapani – prosegue Peluso –, mentre Turi Tumino di Ragusa fu aiutato da Di Blasi al magistero. Dalla Libia ho portato dei calzoncini in stile americano e li ho regalati… così tutti avevamo le maglie uguali, ma per il resto eravamo tutti diversi. Il nostro premio partita era d’entrare gratis allo stadio per vedere la Serie A di calcio… Quando vincevamo, facevamo un corteo fino al centro, portando il pallone sotto braccio e pavoneggiandoci con le ragazze. Ricordo anche le trasferte, nei vagoni di terza classe, con i sedili in legno. Mai preso un aereo! Dormivamo in quattro nelle cuccette, tra odori molesti e altri passeggeri pittoreschi, come il pastore che portava con sé i formaggi».

In squadra c’erano tanti elementi importanti, guidati in Serie B e Serie A da coach Amerigo Penzo. «Amerigo Penzo forse non era un grande coach, ma aveva allenato la Nazionale e quindi aveva un grande curriculum – chiude Peluso –. Lui ci faceva allenare con il pallone di cuoio, nel campo all’esterno del Cibali. Ricordo Pippo Grasso: non metteva due parole d’italiano insieme, ma in difesa io e lui eravamo insuperabili. Poi c’era Santi Puglisi. L’ho conosciuto una volta che si allenava con il professore Bruno Cacchi, di atletica; saltava come un grillo! Lo dissi a Penzo e lui lo prese per la squadra. L’ho scoperto io».

La famiglia di Peluso è rimasta nel basket: è zio di Francesco e Andrea Baviera, anime dell’Akrai Palazzolo Acreide. Il primo, inoltre, è dirigente di lungo corso dell’Adrano Basket. È stato anche nel settore sanitario del Calcio Catania ai tempi della presidenza Attaguile, con Rosario Mineo suo mentore anche quand’è diventato presidente del Panathlon. Una memoria storica vivissima per il basket catanese di successo.

Roberto Quartarone

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