Santi Puglisi, una vita di successi

Alla soglia dei settant’anni, Santi Puglisi è forse il dirigente più esperto su cui possano contare le squadre professionistiche italiane. Dopo un anno di pausa, l’ex cestista della Grifone Catania è tornato sui parquet nazionali come direttore sportivo della New Basket Brindisi, in Legadue. Non tutti sanno, però, che Puglisi detiene un record molto particolare: «Tra i dirigenti, sono l’unico ad aver disputato 12 finali scudetto in 18 anni di lavoro nella massima serie tra Scavolini Pesaro e Fortitudo Bologna.» Le radici di questi successi affondano nel fertile terreno del basket catanese anni cinquanta.

Santi Puglisi

DIPLOMATO ISEF. Santi Puglisi, 68 anni, ai tempi della Grifone, fresco del diploma all’ISEF di Roma.

Com’è iniziata la sua esperienza nella pallacanestro?
«Avevo quindici anni, nel 1955, quando Alfredo Avola fece una leva scolastica di pallacanestro al Leonardo da Vinci, dove studiavo. Questi era dirigente e allenatore del Gad Etna e mi inserì nel suo gruppo. Nel giro di un paio di anni mi mise in prima squadra. In seguito passai nella Grifone di Amerigo Penzo. Mi fece esordire a 17 anni in una trasferta a Napoli, nel campo dei cavalli di bronzo, ricavato nei sotterranei del Maschio Angioino. Mi ricordo anche che feci 4 punti. All’epoca facevamo delle interminabili trasferte in treno, in terza classe, e impiegavamo anche ventiquattro ore per raggiungere Brindisi, Roseto o Teramo. Si dormiva nelle reti dei bagagli! In casa si giocava all’aperto e non c’erano le docce. Usavamo un secchio riempito da un rubinetto e per lavarci ci tiravamo secchiate d’acqua a vicenda! Sono tutti ricordi indelebili… Ci seguiva un buon pubblico, non tantissima gente, ma del resto non abbiamo mai avuto molti sostenitori.»

Si racconta che fosse anche un ottimo pallavolista. È vero?
«In realtà cercavo di conciliare tutti gli sport e praticavo anche atletica e pattinaggio, oltre a pallacanestro e pallavolo. Ho iniziato contemporaneamente queste ultime due discipline ed emersi in entrambe. Da una parte Luciano Abramo e dall’altra Amerigo Penzo cercavano di farmi lasciare l’altro sport, tanto che una volta Abramo mi tirò fuori dal campo durante una partita importante di basket… In ogni caso, la Grifone giocava di mattina e la squadra di pallavolo di pomeriggio, quindi avevo tempo per entrambe.»

Dove giocò dopo l’esperienza con la Grifone?
«Andai a Roma, dove continuai a giocare con  Fiamma A, Leonina e Vis Nova. Non smisi solo perché frequentavo l’ISEF e avevo già in mente di fare l’allenatore, quindi volevo confrontarmi con le metodologie di allenatori diversi. Per esempio seguii Albino Combi, che era un esperto di fondamentali ed era il tecnico della Leonina. Nello stesso periodo, ho disputato e vinto i campionati universitari con il CUS Roma.»

Grifone 63
FRESCHI RETROCESSI. La Grifone Catania 1962-63, appena retrocessa dalla Serie A.

E quindi ritornò a casa.
«Al mio ritorno a Catania Marco Mannisi ed Elio Alberti mi offrirono la gestione tecnica dello Sport Club. Iniziai ad insegnare così di mattina ero a scuola e di pomeriggio seguivo tutte le squadre, dal minibasket ai senior che facevano la Serie D. Iniziai con un gruppo dello Spedalieri, fra i quali ricordo Famoso, Strazzeri, Sensi, Maglia e Vitale, più Cavaletti che non studiava lì. Tutti avevano una voglia smisurata di basket e miglioravano non per i miei insegnamenti, ma perché passavano cinque o sei ore al giorno dai salesiani e prima di venire all’allenamento. Intanto la prima squadra vinse uno spareggio sul campo neutro di Salerno contro il Messina di Dispensieri e andammo in Serie C. Poi la squadra sarebbe arrivata anche in Serie B, ma nel 1973 lasciai Catania per andare a fare il vice di Valerio Bianchini alla Stella Azzurra di Roma, sponsorizzata dalle Industrie Buitoni Perugina. Rimasi sette anni con lui, partendo dalla Serie B e conquistando subito una promozione in Serie A. Ero anche il responsabile delle giovanili da cui uscirono Marco Ricci, Andrea Masini, Sauro Rossetti e tanti altri.»

Quali furono le esperienze successive?
«Nel 1980 andai alla Superga Mestre dove fui il vice di Massimo Mangano. Anche lì ricoprii il ruolo di responsabile del settore giovanile e gli juniores vinsero lo scudetto, vincendo 33 partite consecutive e rimanendo imbattuti. A quel punto, Sandro Gamba e Cesare Rubini mi chiesero di entrare nello staff delle Nazionali. Diventai così il vice del commissario tecnico Sandro Gamba e ancora una volta mi occupai delle giovanili, vincendo qualche medaglia e affrontando tutti gli Europei tra il 1980 e il 1985. I successi più importanti, comunque, furono con la Nazionale maggiore: l’oro agli Europei 1983 di Nantes come viceallenatore e preparatore e la partecipazione alle Olimpiadi nel 1984. Arrivammo quinti ed fu un buon risultato, considerando che oggi neanche ci qualifichiamo…»

Come concluse la sua esperienza in Nazionale?
«Da allenatore affermato. Lasciai la federazione e andai alla Stefanel Trieste come capoallenatore, per un anno in Serie A1. L’anno successivo andai a Reggio Calabria nella Viola sponsorizzata dalla Standa. Si prospettava un’esperienza molto interessante perché la squadra era retrocessa in Serie A2 e il giudice Viola, famoso personaggio a cui era legata la società, si rivolse a me come specialista di giovanili. Mi consegnò una squadra con cinque senior per salvarci e cinque giovani da lanciare. Ricordo ancora la formazione: Max Bianchi, Mark Campanaro, Mario Simeoni, Joe Bryant, Kim Hughes; Stefano Attruia, Donato Avenia, Gustavo Tolotti, Giovanni Spataro e Gerardo Brienza. Joe Bryant è il padre di Kobe, che all’epoca aveva otto anni; me lo ricordo al campo che palleggiava e a volte ci disturbava durante gli allenamenti! Poi ritornai al settore squadre nazionali per due anni e nel 1989-90 mi chiamò la Scavolini Pesaro per fare il general manager. In sette anni la squadra disputò tre finali scudetto vincendo quella del 1990, vinse una Coppa Italia, disputò una Final Four di Coppa Campioni a Parigi nel 1991 ed ebbe come allenatori Scariolo, Bianchini e Bucci.»

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PRIMI PASSI. I primi passi per il giovane tecnico Santi Puglisi: da La Sicilia, l’articolo sulla promozione in Serie C [L.Cosentino].

Di cosa si occupava esattamente?
«Facevo di tutto, ero l’unico responsabile della società. La Scavolini fabbrica cucine e non si occupa direttamente di basket, ma ha costituito una società additata come modello di efficienza. Bisogna figurarsi che hanno trasformato un albergo di ventuno camere in foresteria… Poi sono stato undici anni alla Fortitudo e lavorare lì è il massimo, perché Bologna è la basket city! Ero il direttore sportivo dell’era Seragnoli, mecenate che ha fatto grande la squadra, e sono andato via un anno dopo di lui. In dieci anni, disputammo nove finali scudetto e ne vincemmo tre. Al suo addio, iniziarono i problemi, la squadra cambiò due volte di proprietà e nel 2007 lasciai. Dissi che mi sarei messo in pensione, ma dopo una settimana non vedevo l’ora di rientrare! Quest’anno mi hanno chiamato varie società e ho accettato la proposta seria di Brindisi. La mia carriera è segnata da due cicli importanti di sette anni, a Roma e a Pesaro, quindi li ho minacciati di completare con loro un nuovo ciclo di 7 anni! Da neopromossi, abbiamo iniziato discretamente, con due vittorie e tre sconfitte maturate al termine di partite molto equilibrate.»

In tanti la considerano il miglior tecnico catanese. Come ha fatto a raggiungere questi traguardi così importanti?
«Dipende dai buoni maestri. Non è automatico il passaggio da buon giocatore a buon allenatore, però aiuta anche l’esperienza acquisita sul campo. A questo vanno aggiunti i corsi, i libri e i clinic. Per essere un buon allenatore si devono avere delle qualità attitudinali, tanta voglia e un pizzico di fortuna. Se per esempio Bianchini non mi avesse chiamato, forse sarei rimasto allo Sport Club.»

Qual è stato il suo massimo successo?
«Per uno sportivo professionista, partecipare ad un’Olimpiade è il massimo dei massimi. A me toccò Los Angeles, che è un posto dove tutti vogliono andare in vacanza. Conservo molti ricordi: la sfilata, l’emozione dell’ingresso al Coliseum, il palazzetto dove giocavano i Lakers… È indimenticabile anche la vittoria agli Europei di Nantes. Concludemmo il girone eliminatorio imbattuti, vincendo contro la Francia, la Russia, la Svezia, la Grecia e la Spagna di Antonio Díaz-Miguel. L’ultima gara, contro la Jugoslavia, si concluse con una rissa. In finale, poi, vincemmo ancora contro gli spagnoli.»

Qual è stata invece la più grande delusione?
«La mancata qualificazione per le Olimpiadi di Seul, quando perdemmo a Rotterdam la partita decisiva contro la Grecia, che era già fuori. Ci fu un malinteso tra Binelli e Riva e gli ellenici, che non avevano uno squadrone, vinsero di un punto.»

Tornerebbe ad allenare?
«Se si gira l’interruttore lo si fa con convinzione, bisogna prendere una decisione definitiva.»

Perché la pallacanestro a Catania non è mai decollata?
«Per due problemi principali. Intanto non ha una grandissima tradizione, come Trapani, Messina o Ragusa. Lì la pallacanestro è molto più radicata e ci si è espressi nel massimo palcoscenico italiano. Catania non è mai riuscita a centrare gli stessi obiettivi e questo incide. Inoltre, la pallavolo ha vinto due scudetti e da sempre c’è stata una grande concorrenza tra i due sport. C’è anche da dire che nel volley chi si occupa di reclutamento è stato più capace di quelli che si occupano di basket. In termini di numeri, molti dei miei ex giocatori che hanno fatto l’ISEF e in seguito hanno insegnato a scuola hanno raccolto molti meno giovani rispetto a quanti ne trovai io.»

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GIOVANI PROMESSE. Santi Puglisi ha svezzato tante giovani promesse etnee: Luciano Cosentino, Pippo Borz, Valerio Cavaletti, Pippo Famoso, Orazio Strazzeri…

E il secondo problema?
«La mancanza di risorse economiche. In molte piazze si trova un mecenate, mentre qui ci sono stati bravi dirigenti, come Avola e Mannisi, che però erano impiegati al comune e purtroppo per loro non erano mecenati. In più non si trovavano sponsor. Negli anni sessanta le aziende non avevano la mentalità delle sponsorizzazioni e non c’era un boom economico tale da giustificare un esborso di quel tipo. Ogni impresa usa la forma di pubblicità che predilige e molti preferiscono destinare i loro budget per la televisione, i manifesti o i testimonial piuttosto che per lo sport.»

Perché la pallavolo ha avuto più successo del basket a Catania?
«Ai miei tempi non aveva più successo, anzi avevano pari dignità. Poi la pallavolo si è affermata quando Abramo lasciò la panchina a Carmelo Pittera, grandissimo tecnico che ha vinto anche i Mondiali. Mi ricordo della Paoletti, anche quando Pippo Baudo ne era il presidente. La pallavolo è stata più duratura come fenomeno, ha avuto lunghi periodi di fulgore e anche dei giocatori importanti, cose che nel basket sono mancate.»

Qual era la situazione dello Sport Club?
«Era una società che voleva crescere, ma era a conduzione familiare. Ricordo che spesso dovevo ritirare io stesso le maglie di una squadra giovanile per farle lavare a mia moglie per darle ad un’altra squadra giovanile. La società era mandata avanti da Mannisi presidente, Alberti general manager e Franco Musumarra accompagnatore. La differenza d’organizzazione la vidi già al mio arrivo alla Stella Azzurra. Loro avevano la tradizione di una squadra appena retrocessa in Serie B con un passato tra le prime quattro d’Italia, una sede e una foresteria. C’era anche una diversa percezione di come si lavora, perché Roma è una megalopoli e i centri giovanili che curavo avevano sede a piazza di Spagna, a Monte Mario e all’Eur. Avevo quindi degli enormi problemi di mobilità interna. Già a Mestre sarebbe stato tutto più facile, perché è una cittadina molto più piccola e i ragazzi sono più liberi di muoversi da soli. Roma era un’altra dimensione rispetto a ciò che ho lasciato. Non sarei certo andato lì se avessi trovato le stesse condizioni, perché mi resi conto che a Catania per una serie di motivi più della Serie C non si poteva fare ed ero un giovane allenatore ambizioso. Bisognava fare come gli emigranti ed espatriare con la valigia di cartone.»

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NAZIONALE. Santi Puglisi ha avuto anche una lunga carriera in Nazionale come collaboratore di Sandro Gamba. L ha incrociato Angelo Destasio.

Le arrivano le notizie della pallacanestro catanese attuale?
«Direi di no… Non ho opportunità di seguirla, abito altrove e la stampa nazionale non ne parla. Mi informo ogni tanto, anche se non ho contatti frequenti con i vecchi amici.»

Qual è stato il miglior giocatore catanese?
«Ai miei tempi, Cosentino e Borzì cominciavano ad avere una taglia fisica notevole. Prima che me ne andassi, Orazio Strazzeri aveva già sfondato ed era stato ceduto alla Candy Brugherio di Monza, dove è rimasto; non è arrivato ad alti livelli, ma ha suscitato l’interesse di una squadra del nord e lo Sport Club ne ha ricavato dei quattrini. Ho avuto Destasio in Nazionale juniores, quando il capoallenatore era Gamba, ma fu scartato. Lo ricordo come un ragazzo simpaticissimo, con un carattere estroverso. Riuscì a sdrammatizzare anche quando fu escluso dalla squadra che avrebbe preso parte agli Europei, dopo l’ultimo allenamento. Di solito, tutti si rattristano e il giocatore che deve lasciare la squadra spesso piange, ma lui sorrise ed escalmò: “Ehi, non è morto nessuno!”»

Chi è stato il miglior giocatore non catanese che ha giocato da noi?
«Vittorio Guarnotta era fortissimo e aveva talento. Tumino era un po’ costruito ma era molto solido ed efficace. Anni dopo, allo Sport Club venne Nenè Lo Presti, un ragusano che studiava medicina. Proprio quando c’era lui, ci furono dei derby eccelsi tra noi e il Gad Etna.»

Quali erano i compagni a cui era più legato nella Grifone?
«In estate ho visto su un giornale di Brindisi un tabellino di una partita tra la squadra di Pentassuglia e la Grifone e ho riletto con piacere il roster della squadra. C’erano Guarnotta di Trapani e Tumino di Ragusa, i professionisti, poi Rinaldi, Pignataro e Asero. Totò Trovato era la persona a cui ero più legato, era un giocatore forte e tra noi si era instaurato un feeling particolare.»

Ma chi era il migliore della Grifone?
«Be’, il più forte ero io!» conclude ridendo.

Roberto Quartarone

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