Basket e Olimpiadi: anni ’60
«Dado» Lombardi racconta

Tre volte alle Olimpiadi: ’60, ’64 e ’68… Il lavoro di Paratore: da pivot a tiratore… Capocannoniere in Serie A… «A Bologna stavo bene!»… I successi da allenatore… «Sono rimasto un Dado!»…

Gianfranco «Dado» Lombardi in una delle sue prime foto con la maglia della Virtus Bologna (da Virtuspedia)

Il problema è sempre quello: fermarlo! Oggi come allora. In campo era veramente difficile tenerlo sotto controllo, ostacolare il suo tiro in sospensione, placare la sua grinta. Adesso, si fa fatica a interromperlo se lo inviti a parlare del suo passato; una volta acceso l’interruttore dei ricordi lui va, rivive i momenti, si appassiona, quasi non concede pause nel suo racconto. Così, a ruota libera, in ogni sua manifestazione. Altrimenti non sarebbe lui: Gianfranco «Dado» Lombardi, una vita nel basket e per il basket, più di 40 anni di carriera – da giocatore e da allenatore – trascorsi in prima linea, senza mai perdere lo spirito del combattente.

Settantuno anni li ha appena compiuti. Motivi di famiglia lo hanno spinto a ritirarsi dalla vita agonistica, altrimenti di energia e di entusiasmo da spendere sui parquet (o magari su una poltrona da dirigente) ne aveva ancora chissà quanto. Vive in un paesino di campagna del Varesotto, tra natura e quiete, quasi in controtendenza col carattere esuberante che lo ha reso noto in pubblico. Il basket, ormai, lo guarda solo alla TV; al massimo, assiste a qualche allenamento, tanto per sniffare un po’ di quell’aria di palestra che un tempo respirava come fosse ossigeno puro. Acconsente all’intervista con gentilezza e puntualitàMi richiami tal giorno, a tale ora, se non le spiace…»), poi eccolo concedersi, generosamente, al telefono.

 

La Nazionale azzurra nella tournée in Sudamerica in preparazione alle Olimpiadi di Roma: Lombardi è il terzo in piedi da destra

Basta pronunciare la parola «Olimpiadi» (l’argomento che ci ha spinto a cercarlo) per provocare la sua prima esclamazione di piacere e di nostalgia. Lui ne ha vissute tre, quelle degli anni ’60, il periodo in cui sullo sfondo del boom economico venne registrato anche quello cestistico nel nostro paese. Entrato a soli diciannove anni in questo palcoscenico, «Dado» fu subito un primo attore, interprete di una concezione nuova del basket, tecnicamente evoluta, mentalmente spregiudicata nei confronti di avversari (e di scuole) fino allora considerati inarrivabili. Da Roma ’60 a Città del Messico ’68, passando per Tokyo ’64: tre tappe di un percorso che ha visto la Nazionale azzurra – come mai prima – entrare nel cuore dei tifosi e proporsi al mondo con una sua identità.

«Grande merito del prof. Paratore» esordisce Lombardi, parlando dell’allenatore che guidò la squadra in quegli anni. «Lui portò un verbo nuovo nella nostra pallacanestro, quello della tecnica, della cura per i fondamentali, della corretta esecuzione dei movimenti. Ripeteva fino alla noia, tanto per fare un esempio, l’importanza di un buon passaggio a un compagno; e si metteva lì a dimostrare. A tal proposito, il raduno di Fermo dell’estate del ’57, dove convocò settanta giovani pescati in giro per tutta Italia, rappresentò davvero una svolta determinante. Per me fu un’esperienza fondamentale. Venivo da Livorno, la mia città natale, e col mio metro e novantacinque, a quei tempi, non potevo fare altro che giocare da pivot. Il Professore mi squadrò per bene, vide in me qualcosa che evidentemente era ancora nascosto, e mi disse di cancellare tutto: la mia impostazione, da quel momento, doveva essere quella di esterno tiratore, e così fu…».

Il classico tiro in sospensione di «McLombard» contro gli USA a Roma ’60: lo stanno a guardare due fuoriclasse, Bellamy (a sinistra) e Robertson

Si sente subito dal tono della voce la stima e l’affetto che ancora porta dentro nei confronti di Paratore. «Sul piano umano era un esempio di stile e di correttezza: sapeva farsi rispettare pur concedendo amicizia ai suoi giocatori. Mi ricordo delle lunghe partite a scopa, nelle quali mi ritrovai spesso, da compagno, a subire le sue simpatiche ramanzine, lui con l’immancabile sigaretta in bocca… Dal punto di vista  professionale era molto serio, oltre che abilissimo: aveva la capacità di tirare il meglio da ognuno di noi, ci responsabilizzava, ci caricava al punto giusto, ma mai in maniera esasperata. Col raduno di Fermo cominciò a costruire, pazientemente, il suo progetto di squadra, che dopo tre anni si sarebbe presentata all’Olimpiade di Roma, un appuntamento al quale tutte le discipline sportive italiane erano chiamate a dare il massimo».

Il basket fu una autentica rivelazione, pur non riuscendo nell’impresa di vincere una medaglia. «Il quarto posto per noi rappresentò un risultato eccezionale. E comunque, al di là della posizione raggiunta, la nostra soddisfazione più grande – si compiace ancora – era stata quella di trascinare dietro di noi un seguito di pubblico fino allora inimmaginabile. Mi vengono i brividi a ricordare il tifo da stadio dei tanti spettatori presenti sulle tribune del Palazzo dello Sport dell’EUR nel girone finale. Penso ancora a quella partita col fortissimo Brasile, che perdemmo al supplementare dopo che un nostro canestro non venne registrato dal tavolo; e penso soprattutto alla seconda partita con gli Stati Uniti, che giocammo alla grande, mettendo davvero paura nel primo tempo a campioni come Robertson, Lucas, Bellamy, West; quella formazione, che ovviamente vinse l’oro, è stata per me la migliore di sempre nella storia delle Olimpiadi, professionisti a parte…».

Una copertina de «I Giganti del Basket», alla vigilia delle Olimpiadi di Città del Messico

Non parla di se stesso Lombardi, ma fu proprio lui la vera sorpresa. Le cronache dicono che era scatenato in certi momenti, imprendibile con le sue giocate veloci che lo portavano spesso a un jump shot in corsa. Arrivò a realizzare 23 punti contro gli USA: l’americano sembrava lui, da qui l’appellativo di «Mc Lombard» che qualcuno gli appioppò. «Certi canestri in faccia a Robertson sbotta lui sorridendo – me li rivedo ancora davanti! Sono poi stato inserito nel quintetto ideale del torneo, un riconoscimento che mi ha riempito di orgoglio. Comunque tutta la squadra giocò al massimo: ognuno di noi svolse il compito preciso che gli era stato assegnato da Paratore. Una partita dietro l’altra, maturava in noi la netta sensazione di essere entrati nella storia; anche perché ci raccontavano delle entusiastiche telecronache in diretta, le prime in assoluto, del grande amico Aldo Giordani… Ah, davvero indimenticabile Roma ’60; e poi c’era quella atmosfera di festa, di amicizia: sia tra atleti italiani, con i quali ci si faceva il tifo a vicenda, che tra stranieri…».

Il giocatore che quella Olimpiade restituì al campionato italiano aveva compiuto un bel salto di qualità. Lombardi vestiva già da due anni la maglia bianca con V nera della Virtus Bologna, alla corte di Vittorio TracuzziAltro allenatore fondamentale per la mia crescita, preparatissimo al punto da concepire il basket dieci anni prima degli altri»). Dopo Roma divenne ancor più un punto di forza, un autentico trascinatore. A me la palla, prego: tiri da fuori, entrate, tanti canestri. Incontenibile! Vinse la classifica marcatori nel ’63-’64 (sponsor Knorr) e nel ’66-’67 (Candy), segnando rispettivamente la bellezza 594 e 552 punti (quando si colpiva anche da tre e si prendeva solo due!). A un passo dallo scudetto nel ’60-’61, un traguardo che non riuscì mai a raggiungere, lasciandogli forse un rammarico. «Non più di tanto! Se avessi voluto vincere anche quello bastava che accettassi le proposte che ripetutamente mi venivano fatte da Milano. La verità è che io stavo bene a Bologna…». Tanto bene che,  nel ’70, passò per due stagioni sull’altra sponda bolognese, quella della Fortitudo, prendendosi anche lo sfizio di vincere un derby (grazie soprattutto ai suoi 24 punti), ma anche il rimbrotto della moglie (tifosa virtussina), che quella sera lo lasciò senza cena…

Lombardi nella veste di allenatore con la Brina Rieti (da sebastanirieti.it)

Intanto, di presenze e punti in Nazionale aveva continuato ad accumularne un bel numero. Europei, Mondiali, Giochi del Mediterraneo (qui sì un primo posto, a Napoli nel ’63); ma soprattutto Olimpiadi: Tokyo ’64, Città del Messico ’68. «Quella di Tokyo fu un’altra esperienza straordinaria riparte col suo racconto – che mi colpì soprattutto per l’organizzazione perfetta e la meticolosità dei giapponesi; e anche per la loro gioia di ospitarci… Paratore aveva riconfermato buona parte della squadra che si era così bene comportata a Roma (oltre al sottoscritto, c’erano Gavagnin, Vianello, Pieri, Vittori, e altri ancora). Eravamo attesi a una conferma e forse a qualcosa di più, ma non era facile, perché gli avversari cominciavano a temerci e ci studiavano. Arrivammo quinti, e quello fu un segnale di continuità importante. Però sono ancora oggi convinto che sprecammo una grande occasione per prenderci una medaglia. Perdemmo non so come con la Polonia, di soli tre punti, una squadra alla quale eravamo ormai nettamente superiori, tant’è che negli spareggi finali dello stesso torneo la sotterrammo con uno scarto di venti. Poi quella inconcepibile partita alle otto di mattina con il Giappone: ma come si poteva giocare a quell’ora? Loro sembravano delle cavallette, chissà come avevano fatto a conservare tutta quella energia? Noi invece, che avevamo sentito la sveglia suonare alle quattro e mezzo, eravamo ancora addormentati. Perdemmo di poco, ma perdemmo…».

Eppure Lombardi, in quella partita, mise a segno 24 punti; altri 21 contro l’Unione Sovietica del colonnello Gomelsky, che vinse poi l’argento. «Quella fu la nostra terza sconfitta. Avevamo di fronte dei giganti, come Krumins, personaggio fuori dal comune e non solo per la sua statura (si raccontava che faceva colazione con ben 12 uova); però non ci facemmo sovrastare. Diciamo che a Tokyo la fortuna non fu dalla nostra parte: con sei vittorie e tre sconfitte, il bilancio era addirittura migliore rispetto a Roma, avremmo meritato qualcosa in più. Comunque, ripeto, la Nazionale era rimasta su posizioni di grande prestigio!».

La parabola cominciò a curvare in basso negli anni successivi e a Città del Messico finì il suo ciclo. «Paratore, secondo me, fece fatica a trovare alternative valide per ringiovanire la squadra, e da noi anziani non poteva più avere il contributo dei tempi migliori… Però devo dire che anche stavolta fummo perseguitati dalla mala sorte. Avevamo vinto le prime quattro partite, faticando un po’ soltanto col Portorico di Teofilo Cruz, giocatore-simbolo nel suo paese; poi fu determinante la sconfitta dopo un tempo supplementare con la Jugoslavia, squadra in grande crescita che aveva in Radivoj Korac il suo giocatore più temibile: finì che loro arrivarono all’argento, mentre noi, crollati psicologicamente, sprofondammo all’ottavo posto. Fu la fine dell’era-Paratore e anche della mia in Nazionale: evidentemente, un filo ci aveva sempre tenuto legati…».

Stagione ’89-’90: a colloquio con Pino Brumatti, suo giocatore a Reggio Emilia, Verona e Siena

I canestri e l’irruenza di Dado Lombardi, come detto, non si sarebbero interrotti con la fine della sua lunga avventura olimpica. Quella del ’72-’73 fu la stagione spartiacque tra la sua carriera di giocatore e di allenatore, perché con la Sebastiani Rieti, in serie B, rivestì entrambi i ruoli, risultando ancora una volta determinante. Subito la promozione in serie A e addirittura anche la semifinale di Coppa Korac. Quindi, il via al suo peregrinare per le panchine di tutta Italia: da Rieti a Trieste, da Forlì a Treviso, da Reggio Emilia a Rimini, da Verona a Siena, dalla sua Livorno a Cantù, e poi a Varese, che dopo Bologna è diventata la sua seconda città adottiva. Bilancio ancora una volta positivo: sette promozioni, di cui cinque nel massimo campionato, e due retrocessioni. «Soddisfazioni me ne sono prese abbastanza anche come allenatore. A parte i campionati vinti, sono contento di avere lanciato tanti giovani: un nome su tutti, quello di Gianmarco Pozzecco. Pensate che era il figlio del mio assistant-coach a Trieste, il quale un giorno mi portò a vederlo giocare in un campionato minore; ancora ragazzino, lo presi con me a Livorno in A1, e sapete benissimo cosa è venuto fuori!». 

Di basket si potrebbe parlare per ore intere con lui; o meglio, si potrebbe stare lì a sentirlo, senza bisogno di invitarlo con le domande. «Un giorno mi metterò a scrivere un libro si ripropone, quasi sforzandosi di convincere se stesso – e vi assicuro che di cose da raccontare ne avrò tantissime…». Dopo averci svelato la vera origine del suo nomignolo, abbiamo immaginato  che le prime parole di questa sua opera potrebbero essere più o meno queste: «Il mio nome di battesimo è Gianfranco, ma quando esordii in Nazionale, il 21 maggio del 1959, a soli 18 anni, i miei compagni di squadra mi chiamarono Dado, che dalle mie parti, in Toscana, sta per piccolo, ragazzino. Da allora, sono sempre rimasto un… Dado! ». 

Nunzio Spina

[9 – segue Città del Messico 1968, continua con Monaco 1972]