Europei di basket: Mosca 1953
Trac settimo, ma senza imbrogli

Finalmente si gioca in Unione Sovietica, ma in un torneo pieno di combine e contestazioni… Cambieranno le regole… Calebotta, il primo pivot… La trovata di Rubini e Margheritini…

 

Vittorio Tracuzzi ai tempi in cui fu chiamato, lui ancora giocatore in campionato, a guidare dalla panchina la Nazionale italiana.

Ne successero di tutti i colori, a Mosca, in occasione della ottava edizione dell’Eurobasket, che l’Unione Sovietica si era finalmente decisa a ospitare, dopo avere già rinunciato al diritto quattro anni prima. Colori sul campo, sotto forma di combine, ostruzionismo, trucchi di gioco (o di non gioco), tutte cose che risultarono davvero inaccettabili. Al punto da indurre la FIBA a pensare di cambiare le regole.

Quella dei «30 secondi», ad esempio, non era ancora entrata in vigore, e allora poteva accadere un caso come quello che si verificò in Jugoslavia-Israele. Si andò al supplementare sul 55 pari, i giocatori slavi (tra cui Boris Stankovic, futuro segretario generale della FIBA) pensarono che la cosa migliore per giocarsi le proprie chance fosse quella di tenere la palla, dopo averla conquistata nella contesa iniziale, per tutti e cinque i minuti di gioco, e andare al tiro solo all’ultimo secondo, togliendo così ogni possibilità di replica agli avversari; fallendo tre volte il tentativo in extremis, finì che di supplementari ne vennero giocati ben quattro, una insopportabile melina per arrivare a quel 57 a 55 che decise l’incontro.

Ancora più sgradevole quello che avvenne successivamente, proprio nelle partite che decidevano la composizione del podio. Qui però, gli organizzatori, se li erano un po’ cercati i guai, affidandosi a una formula completamente originale, che si rivelò un mezzo pasticcio. Quattro gironi di qualificazione, le prime due ne formavano uno a otto in cui tutte si affrontavano tra di loro; che alla fine potessero esserci squadre a pari punti (e quindi si potesse in qualche modo manipolare i punteggi) non era proprio una evenienza così imprevedibile.

Una fase della partita Italia-Romania (vinta dagli azzurri), con lo sfondo delle tribune all’aperto dello stadio della Dinamo Mosca. Ha il pallone in mano Alberto Margheritini; dietro, alla sua destra, Carlo Cerioni.

Il successo della favorita URSS (tanto più in casa propria) non fu mai in discussione; ma alle sue spalle si andò profilando, per realizzarsi in maniera clamorosa, un arrivo sulla stessa linea di quattro squadre (Ungheria, Francia, Cecoslovacchia e Israele, poi classificatesi nell’ordine). Il primo imbroglio venne fuori nella partita tra sovietici e ungheresi: dal 5’ del secondo tempo, sul punteggio di 29 a 24, si decise di non andare più a canestro fino alla conclusione; la cosa andava bene ai primi (sicuri così della vittoria) e ai secondi (che tenevano basso lo scarto per puntare all’argento); nel portare avanti questa sceneggiata ci fu addirittura chi si stese per terra, tra i fischi dei quasi 40.000 che riempivano gli spalti dello stadio calcistico della Dinamo Mosca.

Altro episodio. Nell’ultima partita, i giocatori di Israele, quando ormai la sconfitta per loro era inevitabile, regalarono agli avversari dell’Ungheria una differenza canestri tale (66 a 20) da permettere loro di guadagnare la medaglia d’argento, chissà se per fare un dispetto alla Francia (che si aggiudicò il bronzo) o alla Cecoslovacchia (giunta quarta nella classifica avulsa). Per far sì che certi episodi non si replicassero, bisognava proprio cambiare le regole!

Una fase di Urss-Ungheria (FIBA)

Da questo panorama poco edificante l’Italia restò fuori, per suo buon onore, ma del settimo posto finale – che faceva registrare un passo indietro rispetto a Parigi ’51 – non si poteva certo andare ugualmente fieri. Anche in seno alla nostra Nazionale ne erano successe di tutti i colori. Era stato fatto fuori Van Zandt (accusato di non saper gestire psicologicamente i propri giocatori, e di badare più ai progressi tecnici che ai risultati), e la successione era stata a dir poco esitante. A gennaio ’52 aveva ricevuto l’incarico Giancarlo Marinelli (che da giocatore aveva partecipato alle prime quattro edizioni degli Europei), ma restò solo quattro mesi, per di più con un allontanamento temporaneo a marzo, quando al suo posto venne chiamato per una sola partita Amerigo Penzo (uno scudetto come giocatore con la Reyer Venezia, prima di affrontare la carriera di allenatore). Al momento di preparare le Olimpiadi di Helsinki, che si sarebbero disputate nell’estate di quell’anno, la Federazione decise di affidarsi a Vittorio Tracuzzi: aveva appena lasciato la maglia azzurra, ma a Varese continuava a svolgere – con la sua proverbiale grinta – il doppio ruolo di giocatore e allenatore, e a 29 anni divenne il commissario tecnico più giovane della Nazionale (tanto da dover trattenere, in panchina, il suo istinto di entrare in campo!)

La Nazionale in giro per Mosca (pubblico dominio, da museodelbasket-milano.it)

Dopo l’eliminazione nel torneo olimpico, Tracuzzi cercava riscatto a Mosca. Dei suoi vecchi compagni di squadra aveva tenuto solo Rubini, Cerioni e Bongiovanni, dando spazio praticamente a una nuova generazione di cestisti. C’era il primo vero pivot italiano (per quei tempi, 2 e 04), Nino Calebotta, che proveniva dalla Virtus Bologna, così come Achille Canna e Mario Alesini. Tra i tanti nomi nuovi, quelli dei diciottenni Tonino Zorzi (goriziano poi approdato a Varese) e Sandro Riminucci (pesarese, si era messo in luce nel ’52 con la conquista dello scudetto juniores da parte della Victoria Libertas, e il Trac lo aveva voluto in Nazionale quando ancora non aveva esordito in prima squadra). Alla loro prima maglia azzurra, in una rosa alquanto nutrita, anche Alberto Margheritini, Stelio Posar, Rino Di Cera, Romano Forastieri, Giuseppe Lomazzi, Nicola Porcelli.

Un’azione di Unione Sovietica-Egitto.

Gli azzurri riuscirono a superare il turno eliminatorio, perdendo con la Cecoslovacchia, ma battendo nettamente Romania (61 a 43) e Svizzera (82 a 32). Nel girone finale a otto, però, arrivò una sola vittoria, con la Francia di due punti, l’ennesima rivincita della rivincita. Sconfitte prevedibili con le altre formazioni dell’Est (Ungheria, URSS, Cecoslovacchia e Jugoslavia); meno scontate quelle con Israele (stato “geograficamente” asiatico, ma da allora ammesso dalla FIBA europea, che in questo esordio arrivò quinto, come abbiamo visto) e con Egitto (che ci faceva ancora masticare amaro, ma stavolta senza Nello Paratore, già pronto a saltare sul primo piroscafo che avrebbe trasferito lui e la sua famiglia in Italia).

L’unico vero colpaccio, nel clan azzurro, lo realizzò quella vecchia volpe di Cesare Rubini che, spacciandosi per diplomatico – e trascinandosi il più giovane Alberto Margheritini, un romano –, riuscì a introdursi nei locali dell’ambasciata britannica in occasione della festa dedicata alla incoronazione di Sua Maestà Elisabetta II, avvenuta proprio il 2 giugno di quell’anno. Un aneddoto da riderci su, al rientro in Italia. Al pari di quello di cui si rese protagonista l’organizzazione sovietica, che nella cerimonia di inaugurazione fece sfilare la nazionale azzurra sotto un tricolore in cui era ancora stampato lo stemma sabaudo. Una gaffe del genere, proprio in un paese comunista, nessuno se la sarebbe aspettata!

Nunzio Spina

Parigi 1951Budapest 1955
I ricordi di Stelio Posar e Sandro Riminucci

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