Mondiali di basket: San Juan 1974
I canestri URSS fanno la differenza

Il ritorno nelle Americhe… Un calendario ad hoc per avere la sfida decisiva in fondo… Tre squadre a pari merito… Italia assente, ma c’è Albanesi…

L’Unione Sovietica cerca la via del canestro con un tiro da fuori contro il Brasile, al Mondiale di San Juan di Portorico; alla fine arriverà la seconda medaglia d’oro (da “Giganti del Basket, n° 8, 1974”)

Il continente americano aveva già nostalgia dei Mondiali. Dopo una sola puntata girata in Europa, non vedeva l’ora di riappropriarsi di una manifestazione che dalle sue parti era nata e cresciuta, che sentiva un po’ come una propria creatura. Stavolta non proprio Sudamerica, ma poco più su, Mar dei Caraibi, isola di Portorico; uno stato di poco più di tre milioni di abitanti, sufficienti, tuttavia, a permettere la diffusione del basket e a fare sbocciare una Nazionale di tutto rispetto.

La capitale San Juan battezzò quella edizione, la settima, ospitando nel suo “Roberto Clemente Coliseum” il maggior numero di incontri, compresi tutti quelli del girone finale. Per la qualificazione si giocò anche nelle cittadine di Ponce e Caguas, indifferentemente a disposizione per i tre gironi; l’estensione del territorio, poco più di un terzo della Sicilia, permetteva facilmente spostamenti da una sede all’altra, da un giorno all’altro.

Il numero delle squadre partecipanti, stabilmente a tredici dalla terza edizione, aumentò di una unità; senza cambiare la formula, però. Tre gironi da quattro, le prime due al round finale, dove stavolta se ne aggiungevano due: oltre alla rappresentativa di casa, la vincitrice della passata edizione, cioè la Jugoslavia. Qui un calendario all’italiana, col solito auspicio da parte degli organizzatori che fosse proprio l’ultimo incontro in programma a decidere le sorti del torneo. Ciò che puntualmente avvenne.

Per l’Italia un ritorno al passato, nel senso che non era presente. Dopo tre partecipazioni consecutive, e soprattutto dopo il quarto posto di Lubiana ’70, sembrava si fosse comodamente accasata nei “salotti mondiali”. Invece no, bisognava sudarsela la qualificazione; e se agli Europei non arrivavi tra le prime quattro (solo quinta a quelli di Barcellona ’73), eri fuori. Questione anche di ripartizione geografica, perché magari a trovar posto era la Repubblica Centrafricana, che a Portorico esordì con un mortificante 48 a 140 contro l’URSS, e inevitabilmente fu ultima con zero vittorie.

La Nazionale azzurra era sempre nelle mani di Giancarlo Primo, al quale si doveva riconoscere il merito di aver creato una formazione solida, votata al gioco di squadra e soprattutto in grado di tradurre sul campo la sua convinta filosofia difensiva. Il che non toglieva spazio alle individualità, come quelle di Meneghin e Marzorati, tanto per fare due nomi. La mancata partecipazione a Portorico fu un semplice contrattempo, perché era stata preceduta dal bronzo europeo di Essen ’71 e dal quarto posto olimpico di Monaco ’72, e sarebbe stata seguita da un altro bronzo europeo (Belgrado ’75) e da un quinto piazzamento alle Olimpiadi di Montreal ’76. Non restava che attendere fiduciosi il prossimo treno “mondiale”.

La sfida tra Jugoslavia e USA (rispettivamente argento e bronzo). In palleggio il play statunitense John Lucas; si riconoscono il compagno Gerard e (da sinistra) gli slavi Kicanovic, Jerkov e Solman (da “Giganti del Basket, n° 8, 1974”).

Jugoslavia, Unione Sovietica, Stati Uniti: le favorite erano sempre loro. E stavolta la lotta fu ancora più serrata. Ci fu addirittura un arrivo a tre a pari punti, e per aggiudicare i posti del podio bisognò affidarsi alla differenza canestri. Nel girone finale di San Juan la Jugoslavia sconfisse l’URSS di 3, ma con uguale scarto fu poi battuta dagli USA. Decisivo quindi lo scontro tra URSS e USA, guarda caso in programma proprio nell’ultima giornata, il 14 luglio: i sovietici ebbero la meglio nettamente (105 a 94), conquistando così il loro secondo oro mondiale, e relegando i rivali statunitensi al bronzo (ritorno a una medaglia, comunque, dopo tre edizioni), alle spalle della Jugoslavia.

Gli USA volevano a tutti i costi vendicare la beffa delle Olimpiadi di Monaco (persa di un punto in una finale contestatissima), e per questo avevano chiamato a raccolta giocatori talentuosi, come il play John Lucas (MVP del torneo e una infinita carriera in NBA da lì in avanti); non bastò, perché inesperienza e impreparazione (solo quattro giorni per conoscersi) pesarono alla fine oltre ogni virtù.

Più decisivo risultò il nuovo talento messo in campo dall’URSS: Oleksandr Salnikov, ucraino venticinquenne, ala, l’erede di Sergej Belov in fatto di precisione nel tiro; 38 punti fu capace di spararli in faccia agli USA (e il tiro da tre era ancora lontano da venire). Nella squadra allenata da Kondrashin, protagonisti anche l’intramontabile Paulauskas e l’altro Belov, Aleksandr, 2 metri di forza fisica, che evidentemente non voleva restare nella storia solo per avere realizzato all’ultimo secondo quell’incredibile canestro della finale olimpica.

Per i campioni uscenti della Jugoslavia ancora un argento (il terzo nelle ultime quattro edizioni dei Mondiali). Accanto ai giganti Cosic e Jelovac, sbocciavano di volta in volta esterni di gran classe; a San Juan fu il turno della guardia Dragan Kicanovic e del play Zoran Slavnic, che dopo qualche anno avremmo visto esibirsi nel nostro campionato, rispettivamente a Pesaro e a Caserta, seguendo proprio la strada di Cosic, che li precedette a Bologna.

Non furono i soli giocatori di quel Mondiale, per la verità, ad affermarsi poi in Italia. Tra gli altri, ancora slavi: Zeljko Jerkov a Pesaro, Drazen Dalipagic a Venezia, Damir Solman a Vigevano; gli statunitensi Tom Boswell a Cantù e Joe Meriweather a Bologna (Virtus); il canadese Lars Hansen a Milano e Roma, il messicano Arturo Guerrero a Rieti, che in questo Mondiale fu il miglior marcatore.

Il turno delle sorprese toccò stavolta a Cuba (quarta, grazie soprattutto ai punti di Alejandro Urgelles) e alla Spagna (quinta, con un “americano” in squadra, Wayne Brabender, naturalizzato per questa e altre occasioni; tra i tanti suoi canestri realizzati anche 34 tiri liberi consecutivi). Solo sesto stavolta il Brasile, fuori dal podio dopo averlo occupato per sei volte consecutive. Sfortunato, a dir poco, il Canada, che nel girone finale giunse ottavo, dopo aver perso di 1 con Cuba e Brasile, di 3 al supplementare con la Jugoslavia, e aver vinto di 13 con la Spagna; all’ultimo incontro, sfiduciato anziché no, si fece battere anche dei padroni di casa di Portorico, che guadagnarono così la settima posizione.

Non c’era l’Italia, come detto; e come spesso succede in casi come questi, fu un arbitro italiano a guadagnare la scena. Aldo Albanesi, 36 anni, internazionale già da quattro, diresse tra le altre, tutte e tre le partite clou di quel Mondiale, Jugoslavia-URSS, USA-Jugoslavia e URSS-USA, riportando consensi unanimi.

Intanto il Mondiale di Portorico segnava uno storico passaggio di consegne: a William Renato Jones, segretario generale FIBA dal 1934, cioè dalla fondazione, succedeva Boris Stankovic, ex giocatore e allenatore serbo, che avrebbe dato vita a una altra lunga era, durata quasi trent’anni.

 

Nunzio Spina

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