Mondiali di basket: Buenos Aires 1990
Sette vittorie, una sconfitta: Italia nona!

Nel Luna Park argentino… Il clan azzurro rivoluzionato… Il record di Riva nella sconfitta decisiva… I giochetti degli avversari…

La Nazionale azzurra in preparazione al Mondiale in Argentina. Seduti da sinistra: Morandotti, Esposito, Rossini, Niccolai, il massaggiatore Galleani, coach Gamba, l’assistant Zorzi, Attruia, Riva, Iacopini, Brunamonti; in piedi, Pittis, Vescovi, Rusconi, Cantarello, Costa, Pessina, Bosa, Dell’Agnello (dal periodico “Basket, 1990”).

Le luci sfavillanti del Luna Park di Buenos Aires tornarono ad accendersi per il basket mondiale a distanza di quarant’anni. Era l’arena che, sorta dentro un parco divertimenti, aveva interamente ospitato la prima edizione della manifestazione; e che adesso – con una capienza, invero, un po’ ridotta e senza più giostre intorno – provava a rivivere la gloria del passato.

Il bis organizzativo difficilmente poteva abbinarsi a un bis di risultato per la Nazionale di casa, che dopo il trionfo di quell’anno, il 1950, non era più riuscita neanche ad avvicinarsi al podio. L’Argentina però – e stavolta era coinvolto gran parte del paese, con le città di Santa Fe, Rosario, Villa Ballester, Cordoba e Salta, oltre alla capitale Buenos Aires – mirava soprattutto a riconquistare l’attenzione dell’intero mondo cestistico. Da questo punto di vista, il successo fu ancora più eclatante.

Brasile-Italia: 125 a 109. La prima partita, e unica sconfitta, relegherà gli azzurri al nono posto. Nella foto, Alberto Rossini in marcatura sul play Guerrinha (dal periodico “Basket, 1990”).

L’esperimento della formula allargata a ventiquattro squadre aveva creato un po’ di euforia nella precedente edizione, ma non certo convinto i puristi del basket, e pertanto fu subito (ma non definitivamente, come vedremo) abbandonato. Il passo indietro, però, si fermò a sedici: quattro gironi di qualificazione da quattro (campioni uscenti e padroni di casa compresi, altra piccola novità), le prime due a formare due gironi intermedi da quattro, dove prima e seconda di ognuno si sarebbero giocate le semifinali incrociate e le finali per le medaglie.

La seconda partecipazione consecutiva dell’Italia a un Mondiale era già un particolare statistico da sottolineare, e nel tempo avrebbe assunto ancor maggior valore. In passato, infatti, era accaduto solo nei “favolosi” anni sessanta; in futuro non si sarebbe più ripetuto! Dalla Spagna all’Argentina, tuttavia, in soli quattro anni, era praticamente cambiato tutto nel clan azzurro, a partire dalla guida in panchina, dove era tornato Sandro Gamba al posto di Valerio Bianchini. Tra i giocatori, si ripresentavano i soli Brunamonti, Riva e Dell’Agnello; l’indisponibilità di Magnifico, Costa e Binelli, oltre a quella di Gracis e Iacopini, aveva praticamente costretto il coach a mettere in campo una Nazionale semi-sperimentale, con il play Rossini, la guardia Niccolai, le ali Pittis, Bosa e Vescovi, le ali grandi Tolotti e Pessina, i centri Vianini e Cantarello (tutti debuttanti, tranne Bosa, presente nella squadra che l’anno prima, al ritorno di Gamba, aveva ottenuto il quarto posto agli Europei di Zagabria).

Finale per l’oro Jugoslavia-URSS: Vlade Divac cerca di contrastare il sovietico Oleksandr Volkov (che due anni dopo giocherà nel nostro campionato) (dal periodico “Basket, 1990”).

Di non riuscire a qualificarsi per la fase finale poteva anche star bene a una Nazionale così improvvisata. Ma di arrivare al nono posto, dopo aver perso una sola partita e averne vinte sette, no, proprio no! Eppure, le stranezze della formula – con la complicità di qualche “giochino” delle avversarie – consentivano paradossi del genere. Bisognava vincere le partite che contavano, è vero; ma anche non perdere di tanto quelle in cui si partiva sfavoriti. L’esordio con la “bestia nera” Brasile, ad esempio, non prometteva niente di buono, ma il passivo di 16 (125 a 109, con 41 punti di Riva, record italiano in un torneo internazionale) doveva risultare determinate per il resto del torneo. Nel girone di Rosario, l’Italia batté poi Australia (94 a 89) e Cina (115 a 76), ma una inattesa (eufemismo!) sconfitta del Brasile con l’Australia aprì la strada della qualificazione a quest’ultima, per differenza canestri ai nostri danni.

Tutto già compromesso! Spediti ai 2.000 metri della cittadina di Salta, nelle Ande, per disputare il girone di consolazione dal nono posto in poi, ai cestisti azzurri non restò che vincere tutte le partite rimanenti, con l’Angola (86 a 78), con la Corea del Sud (123 a 100), col Canada (110 a 81), col Venezuela (108 a 100), fino allo “spareggino” finale con la Spagna (106 a 83, con 34 punti di Riva e 28 di Pessina). E quindi, nono posto. La sfortuna era stata pari alla simpatia che questa nazionale semi-sperimentale aveva suscitato, con le prove tutto cuore di Pessina, Pittis, Niccolai, Rossini, Vianini; più il cecchino Riva, secondo miglior marcatore del torneo, dietro all’inossidabile brasiliano Oscar (in procinto di trasferirsi da Caserta a Pavia), che stabiliva il record di 34,6 di media, finora imbattuto.

L’arbitro italiano Alberto Zanon è risultato uno dei migliori della manifestazione (dal periodico “Basket, 1990”).

Chi non aveva bisogno di congiunture favorevoli era sicuramente la Jugoslavia. Una confederazione di campioni, la squadra guidata da Dusan Ivkovic (già argento olimpico a Seul ’88 e oro europeo a Zagabria ’89), con i serbi Divac e Savic, i croati Drazen Petrovic e Kukoc (MVP del torneo), lo sloveno Zdovc, il montenegrino Paspalj. Loro sì che potevano permettersi il lusso di perderla una partita nel girone di qualificazione (con Portorico, che poi giunse quarto). Sarebbero poi stati spietati con Brasile, Unione Sovietica e Grecia, prima di affondare gli USA in semifinale (99 a 91, con 31 di Petrovic) e di nuovo l’Unione Sovietica in finale (92 a 75, 20 di Paspalj). Terzo oro mondiale per la Jugoslavia (che eguagliava così il primato sovietico); l’ultimo della Jugoslavia unita, per la guerra che da lì a un anno avrebbe nuovamente diviso terre, etnie e religioni.

Venti di separatismo e di disgregazione, in verità, avevano cominciato a spirare anche in Unione Sovietica, portando all’indipendenza (nel marzo del ’90, primo tra i paesi baltici) la Lituania, che non inviò più suoi giocatori in Nazionale; e se uno di questi si chiamava Arvydas Sabonis, allora la rappresentativa ne usciva fortemente indebolita. C’erano ancora estoni e lettoni in squadra, così come ucraini e kazaki; e lituano restava l’allenatore, Garastas. Squadra solida e ben organizzata, ma senza Sabonis il divario con la Jugoslavia (dalla quale fu sconfitta due volte) restava incolmabile. Questa d’argento era l’ottava medaglia conquistata nelle ultime otto edizioni. Sarebbe stata l’ultima. Anche l’URSS era in procinto di scomparire.

La medaglia di bronzo fu forse un premio eccessivo per la rappresentativa statunitense, ancora una volta formata da giocatori non professionisti (ma qui sarebbe finita un’epoca). I giovanotti di belle speranze di turno avevano i nomi di Alonzo Mourning, Kenny Anderson, Christian Laettner, tutti ovviamente future stelle NBA. Ma al Luna Park di Buenos Aires rischiarono di perdere prima con i padroni di casa dell’Argentina (giunti alla fine ottavi), poi con l’Australia (79 a 78) e furono sconfitti da Portorico (81 a 79), salvo poi ritrovarselo nella finale per il terzo posto e sudare tanto.

Dimenticavamo un altro italiano, l’arbitro veneziano Paolo Zanon: fu uno dei migliori, ma non gli venne affidata la finale per l’oro come avrebbe sicuramente meritato.

Nunzio Spina

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