Basket e Olimpiadi: Sidney 2000
La bandiera dei cestisti azzurri!

Gli Stati Uniti in tono minore, ma comunque vincenti… Un’Italia a corrente alternata… Ancora dominio Usa nella femminile…

Il ritorno del basket maschile italiano alle Olimpiadi non poteva passare inosservato. A sbandierarlo ai quattro venti – è proprio il caso di dire – ci pensò Carlton Myers, giocatore simbolo della nuova generazione, al quale venne affidato il compito di alfiere azzurro nella cerimonia di apertura dei Giochi di Sidney. Sosteneva il tricolore con fierezza, lui che era nato a Londra e aveva sulla pelle la tinta scura dei Caraibi (di cui era originario il padre); salutava continuamente il pubblico e regalava sorrisi, con quel suo carattere aperto e gioviale che aveva maturato crescendo in terra di Romagna (la mamma era della vicina Pesaro). Attraverso la sua immagine, lo sport italiano voleva lanciare i suoi messaggi: di pace, di integrazione, di ottimismo. Il basket maschile – molto più modestamente – voleva mostrare la sua voglia di riscatto.

L’oro agli Europei di Parigi dell’anno prima aveva spalancato le porte della qualificazione al torneo olimpico, dove l’Italia mancava da un bel po’ (era stata assente a quello di Seul dell’ultima URSS, poi a quelli di Barcellona e di Atlanta dell’imbattibile Dream Team). A Sidney erano di scena le solite 12 finaliste, suddivise in due gironi: le prime quattro accedevano ai quarti incrociati. Nel suo gruppo, l’Italia se la doveva vedere con gli USA, e poi con Lituania, Francia, Cina e Nuova Zelanda. Dall’altra parte, Jugoslavia, Spagna, Russia, Australia, Canada e Angola. Teatro degli incontri due impianti nuovi  all’interno del gigantesco «Parco Olimpico», interamento allestito per l’occasione: il Dome (10.000 posti) e, dai quarti di finale, il Super Dome (18.000 posti), il palazzo dello sport più grande d’Australia e dell’Emisfero sud.

Il tecnico montenegrino Boscia Tanjevic era riuscito a creare una Nazionale azzurra particolarmente battagliera, tutti dotati di dinamismo e di spirito di iniziativa (quest’ultimo, invero, da frenare un po’ in alcune circostanze). Myers, Basile, Meneghin, lo stesso Fucka (un lungo che sapeva destreggiarsi molto bene lontano da canestro) erano in grado di colpire da fuori in maniera micidiale, ma bisognava trovare la giornata giusta. La formazione era praticamente la stessa di quella che aveva trionfato a Parigi l’anno prima: oltre ai giocatori appena citati, si aggiungevano i già affermati Chiacig, Abbio, Galanda, Marconato, Damiao e Michele Mian (un’ala piccola, ottimo difensore); assente De Pol, completavano la rosa German Scarone (play argentino naturalizzato) e Agostino Li Vecchi (ala di 2 e 04, cosentino di nascita, cresciuto cestisticamente sulle due sponde dello Stretto, tra Viola Reggio e Barcellona Pozzo di Gotto).

Nella partita di esordio venne sconfitta la Lituania (che per un Sabonis in meno aveva acquistato tanti altri giocatori di livello internazionale): 50 a 48 il risultato finale di una partita piena di errori, con una bomba allo scadere di Andrea Meneghin. Partenza fortunata e promettente: era stata superata la squadra che aveva vinto gli ultimi due bronzi. Subito dopo, però, bisognò fare i conti con gli USA, e qui l’equilibrio durò solo un tempo; un passivo di 33 a 9 in soli dieci minuti decretò una sconfitta senza scusanti: 93 a 61, ma poteva starci.

Quella statunitense non era più – volutamente – una «squadra da sogno». Si era deciso di reclutare ancora una volta giocatori professionisti della NBA, ma di livello medio, il che rappresentava una soluzione di compromesso per evitare dispute di natura contrattuale con i proprietari delle franchigie dei grandi campioni. Ne venne fuori una selezione decisamente inferiore a quella delle precedenti due edizioni, che comunque partiva lo stesso con i favori del pronostico, se non altro per la facilità con la quale si era aggiudicata i Campionati Americani dell’anno prima, qualificanti per Sidney. Stavolta i nomi dei giocatori non erano quelli da copertina di riviste specializzate. Soltanto tre, su dodici, potevano essere considerati dei fuoriclasse: Jason Kidd (play con grandi doti di assistman), Kevin Garnett (un 2 e 11 in grado di ricoprire sia il ruolo di ala grande che di ala piccola) e Alonzo Mourning (pivot di 2 e 08, collezionista di rimbalzi e di stoppate). L’allenatore era Rudy Tomjanovich, due titoli NBA con gli Houston Rockets nel suo curriculum recente.

Torniamo alla Nazionale italiana. La terza partita diede la possibilità di tirare un po’ il fiato e di riprendersi nel morale. Si affrontava la Nuova Zelanda, una debuttante sulla scena olimpica: non fu proprio uno scherzo superarla, ma alla fine i canestri di Myers e Abbio spazzarono via ogni preoccupazione (78 a 66). Ed ecco la Francia, quarta agli ultimi Europei, squadra che di anno in anno aumentava sempre più la sua caratura. In quella formazione emergeva la tecnica dei due playmaker: Laurent Sciarra e Antoine Rigaudeau, entrambi noti al nostro pubblico per la loro militanza rispettivamente a Treviso e a Bologna (qui uno scudetto e una Eurolega con la maglia della Virtus). Maturò un’altra vittoria netta per gli azzurri (67 a 57), ma il compito fu ben più difficile, perché a 58” dal termine il punteggio era sul 58 a 56: a dare la svolta decisiva arrivò la solita bomba finale di Andrea Meneghin, che in quel torneo olimpico – a dire il vero – ebbe una percentuale al tiro tutt’altro che felice.

Col morale alle stelle, e forse con un po’ di deconcentrazione, si affrontò la Cina, che sulla carta non avrebbe dovuto creare un grosso ostacolo, anche se si trovava a disputare la sua quinta olimpiade consecutiva. Stavolta non riuscirono proprio a entrare in partita Myers e compagni, forse impressionati dalla statura di Yao Ming, 2 e 29 di altezza, vent’anni compiuti da pochi giorni, destinato a diventare un atleta simbolo dello sport cinese, anche quando avrebbe deciso di accettare le lusinghe del basket NBA americano. Sconfitta inattesa, ma senza conseguenze. La qualificazione ai quarti era già stata ampiamente guadagnata prima, e tutto sommato la combinazione era stata favorevole: evitate Russia, Jugoslavia e Canada, toccava l’Australia, l’avversaria – sempre sulla carta – meno temibile.

Si potevano aprire spiragli per una medaglia, e forse anche stavolta ci fu un pizzico di presunzione, qualcuno addirittura aveva già rivolto lo sguardo verso il possibile avversario della semifinale. Non erano stati fatti bene i conti con le potenzialità degli australiani, che peraltro avevano il vantaggio del fattore campo, e soprattutto con quelle del loro giocatore più rappresentativo, Andrew Gaze, guardia di due metri, eccellente marcatore, giunto alla sua quinta Olimpiade consecutiva (traguardo che gli permise di eguagliare il record del portoricano Teofilo Cruz e del brasiliano Oscar Schmidt, superando quest’ultimo nel numero di partite disputate, con ben quaranta presenze). La prestazione degli azzurri fu a corrente alternata, come del resto lo era stata fino allora nel torneo: sotto di dieci nel corso della ripresa (38 a 48), riuscirono in quattro minuti a ribaltare addirittura la situazione (52 a 48) grazie alla difesa asfissiante di Mian su Gaze. Fu però ancora lui, il terribile Gaze (conosciuto anche in Italia, per una sua breve apparizione a Udine), a condannarci, con un tiro proprio sul filo della sirena, che fissò il risultato sul 62 a 65.

Psicologicamente, un colpo durissimo da smaltire. Per fortuna, nell’ulteriore cammino in compagnia delle deluse, si trovò una squadra ancora più allo sbando, la Jugoslavia, ormai solo un lontano ricordo di quella di Atlanta: sconfiggendola per 69 a 59, l’Italia riuscì ad aggrapparsi al quinto posto. Dopo il prolungato forfait di tre edizioni, il risultato non poteva considerarsi cattivo (stesso piazzamento dell’ultima partecipazione, a Los Angeles ’84), ma ancora una volta si aveva avuto la netta sensazione di avere buttato via un’occasione propizia. Anche perché, dopo la consolazione arrivò l’immancabile beffa, anzi le beffe. Sul podio, infatti, sarebbero salite due squadre già battute nel girone eliminatorio: la Francia (argento, come nel lontanissimo ’48 a Londra) e la Lituania (al suo terzo bronzo consecutivo).

L’oro andò agli Stati Uniti, com’era già scritto, nonostante la squadra non avesse le capacità (e neanche la pretesa) di far sognare. All’inizio diede l’impressione di dominare come aveva fatto il Dream Team nelle passate edizioni: 47 punti alla Cina, 46 alla Nuova Zelanda, solo 32 all’Italia (come sappiamo) e altrettanto alla Francia, che però si portò dietro per un po’ di tempo l’onta della «schiacciatona» che la guardia di 1 e 96 Vince Carter riuscì a realizzare scavalcando i 2 e 18 del pivot transalpino Frédéric Weis (col titolo di «le dunk de la mort», la «schiacciata della morte», come i giornali francesi la definirono, quella istantanea sarebbe passata alla storia). Poi, però, ci fu anche il momento della vulnerabilità, e poteva scapparci la sorpresa. La Lituania, l’unica ad avere rimediato uno scarto non in doppia cifra nel girone eliminatorio, rischiò seriamente di eliminare gli USA in semifinale, mancando più volte in maniera clamorosa il canestro decisivo: 85 a 83 il risultato, da brividi! E in finale la Francia si prese la piccola rivincita di rendere molto equilibrato l’incontro, cedendo solo negli ultimissimi minuti per soli dieci punti.

Sicuramente più netta fu l’affermazione della squadra femminile USA di basket, che poteva ancora avvalersi di molte protagoniste dell’oro di Atlanta. Tra queste, l’intramontabile Teresa Edwuards, che andava anche lei ad eguagliare il record delle cinque partecipazioni olimpiche (come Cruz, Oscar e Gaze), ma con un palmares ben più prestigioso: quattro medaglie d’oro e una di bronzo. Ancora Brasile e Australia alle spalle delle irraggiungibili statunitensi, ma stavolta a posizione invertite, con l’argento per le padroni di casa. Assente la selezione italiana, che a Barcellona e ad Atlanta aveva, quanto meno, colmato il vuoto dei colleghi maschi. Dopo i primi brillanti risultati, Riccardo Sales aveva fatto fatica a mantenere la sua Nazionale ad alti livelli: impantanata nell’undicesimo posto per ben due edizioni dei Campionati Europei (’97 e ’99), e quindi mancata anche la qualificazione olimpica, la squadra sarebbe rientrata per tanto tempo nei ranghi dell’anonimato.

Si era parlato di donne protagoniste a Sidney, dall’aborigena Freeman alla californiana Jones, alle tante italiane (di nascita e di matrimonio) in grado di bissare o migliorare i piazzamenti di Atlanta. Sarebbe doveroso menzionare almeno un’altra grande atleta, che in quella occasione stupì per i suoi risultati. Leontien Van Morseel, ciclista olandese, fu capace di aggiudicarsi tre medaglie d’oro e una d’argento, vincendo praticamente in ogni specialità, a cronometro, su pista e nella corsa in linea. Per lei si trattava di uno strepitoso ritorno al successo, dopo avere superato la dolorosa vicenda di una malattia anoressica: quando si dice vincere la scommessa della vita!

Olandese anche uno dei personaggi al maschile di quei Giochi. Pieter Van den Hoogenband, 22 anni, batté nel nuoto la fortissima concorrenza sia nei 100 che nei 200 stile libero: nella prima gara spodestò dal trono il russo Aleksandr Popov (già vincitore sia a Barcellona che ad Atlanta), mentre nella distanza doppia diede un piccolo dispiacere all’idolo di casa (era proprio di Sidney), Ian Thorpe, che si presentava più che mai deciso, appena diciottenne, a fare man bassa di medaglie. Thorpe si dovette accontentare – si fa per dire – di tre ori e due argenti nelle varie gare di velocità dello stile libero, tra individuali e staffette. Straordinarie le sue qualità natatorie, con la particolarità fisica di un 51 di piede, che gli permetteva praticamente di spingere sull’acqua come se avesse due pinne.

L’Aquatic Center si sostituì allo Stadio di atletica come teatro principale delle competizioni olimpiche. A parte la partecipazione del pubblico per il nuoto, sport nazionale in Australia, ci fu effettivamente in quella piscina qualcosa di magico (sarà stata l’acqua, saranno stati i materiali dei costumi, saranno stati… i muscoli degli atleti) che permise di abbattere una serie incredibile di record. La magia  funzionò anche per la squadra azzurra, mai così vincente. Domenico Fioravanti vinse l’oro (primo nuotatore azzurro nella storia) nei 100 rana, e fu in grado di replicare nei 200. Sentiva aria di casa anche il napoletano Massimiliano Rosolino, per le sue origini australiane da parte di mamma: argento nei 400 stile libero dietro a Thorpe, bronzo nei 200 sl dietro a Van den Hoogenband e Thorpe, poi il gran finale con l’oro nei 200 misti.

Acqua prodiga di campioni, e di record. Sul bacino del canottaggio, l’inglese Steven Redgrave ottenne per la quinta volta consecutiva la medaglia d’oro, da Los Angeles in poi. E con i remi non se la cavarono male neanche gli italiani: Agostino Abbagnale, l’ormai famoso fratello della dinastia campana, conquistò il terzo oro della sua carriera, tornando a gareggiare nel 4 di coppia, assieme a Sartori, Galtarossa e Raineri. Nella canoa non poteva mancare all’appuntamento con la vittoria Antonio Rossi, che assieme al fedele Beniamino Bonomi tagliò per primo il traguardo del K2 1000. Giampiero Galeazzi aveva ancora di che urlare le sue telecronache, la voce sempre più rotta: per l’emozione e non solo!

 

Nunzio Spina

[23 – segue la prima puntata di Sydney 2000, continua con Atene 2004]