Mondiali: Rio de Janeiro ’63
Il racconto di… Franco Bertini

Il Ragno… «Soddisfazione personale; molto meno come squadra»… «Nikolic mi elesse miglior play»… «Paratore, un innovatore»…

Franco Bertini ha disputato con la Nazionale i Mondiali del ’63, le Olimpiadi del ’64 e gli Europei del ’65 (dal periodico “Pallacanestro, 1963”).

 Gianfranco Bertini (detto “Franco”) è nato a Pesaro il 28 agosto 1938. Sulle orme di Sandro Riminucci, ne ripercorse le prime tappe della carriera di cestista, essendo anche lui una scoperta del talent-scout di casa Agide Fava, avendo anche lui vinto un titolo nazionale juniores (nel ’56, a quattro anni di distanza dal primo), entrando anche lui da giovanissimo nella prima squadra, allora col marchio Victoria Benelli. Play-maker di 1 e 84, dal fisico filiforme e agile, era dotato di grande elevazione e soprattutto di una buona visione di gioco (da cui il soprannome “ragno”, affibbiatogli da Fava, per questa sua capacità di tessere le trame in campo). Ha giocato anche a Milano con la Simmenthal (uno scudetto), a Varese con l’Ignis e a Bologna con la Fides Gira, prima di tornare a Pesaro per gli ultimi nove anni della sua carriera. La sua militanza con la Nazionale maggiore è legata al nome di Nello Paratore, che lo fece esordire nel gennaio del ’58, in un Italia-Ungheria, e lo inserì poi nella formazione che disputò i Mondiali di Rio de Janeiro del ’63, le Olimpiadi di Tokyo del ’64 e gli Europei del ’65 a Mosca.

«Sono trascorsi più di cinquantacinque anni, ma come si fa a dimenticare quel Mondiale in Brasile del ’63? Ero nel giro della Nazionale già da diverse stagioni, però quella fu la mia prima grande esperienza internazionale, e a giudicare dai commenti dei giornalisti della carta stampata (c’erano solo loro al seguito!) risultai uno dei più positivi della squadra… A livello personale fu una grande soddisfazione; molto meno come squadra, ma voglio ricordare che si trattava del primo Mondiale per l’Italia, ed essere arrivati settimi non era poi così inglorioso come si volle far credere…».

Franco Bertini in azione (dal periodico “Pallacanestro, 1963”).

«Ricordo la magnificenza del Maracanãzinho, non avevo mai visto un impianto così imponente, e soprattutto non mi ero mai trovato con un pubblico così numeroso e rumoreggiante come quello di Rio de Janeiro; la polizia ricorreva spesso ai manganelli per placare la sua irruenza… Comunque, un’atmosfera molto coinvolgente; figurarsi che i radiocronisti brasiliani correvano continuamente sul bordo del campo per descrivere le azioni, e a ogni piccola pausa erano pronti a intervistare i giocatori in diretta…».

«Peccato non essere riusciti a ottenere di più, avevamo cominciato alla grande quel torneo, a San Paolo, vincendo con Argentina e Messico… Poi, purtroppo solo sconfitte a Rio; alcune inevitabili, come con Stati Uniti e Unione Sovietica, e soprattutto col Brasile, che alla fine vinse perché aveva giocatori come Amaury e Wlamir, dotati di tecnica sopraffina e forza atletica eccezionale; altre no, come quella con la Jugoslavia, dove c’era Korac, ma noi ci siamo fatti recuperare un vantaggio notevole, ed è stato lì che la squadra è crollata… Così abbiamo perso anche con Francia e Portorico, che in altre situazioni avremmo potuto tranquillamente battere…».

Sfruttando le sue doti atletiche, Bertini riesce a stoppare lo statunitense Gibson (sette cm più alto) nella partita del Mondiale di Rio; assistono all’azione Lombardi (6) e Masini (12) (dal periodico “Pallacanestro, 1963”).

«E dire che proprio la partita con la Jugoslavia è stata l’occasione che mi ha procurato il giudizio più lusinghiero… Sulla panchina slava infatti c’era il grande Aza Nikolic, che rimase evidentemente impressionato dalla mia prestazione, dal momento che nella votazione finale mi elesse come il miglior play-maker (ricordo di avere fatto diversi canestri dopo conquista di rimbalzo offensivo, cosa insolita per il mio ruolo)… Davvero un grande onore, che non ho mai dimenticato, così come lui non si è dimenticato di me, se è vero che mi avrebbe portato addirittura a Belgrado, e quando cominciò la sua avventura con l’Ignis Varese, nel ’69, chiedeva ancora informazioni sul mio conto. Ovviamente non se ne fece nulla, io avevo già 31 anni…».

«Devo dire, comunque, che un altro mio grande estimatore era proprio il prof. Paratore. Certo, io non posso che parlarne bene, visto che tutte le volte che ho vestito la maglia azzurra, fin dal debutto con quella juniores nel marzo del ’57 (Italia-Romania a Gorizia), c’era lui in panchina. Per me è stato un innovatore, ha portato una ventata di professionalità, basava tutto sul lavoro, seguendo schemi precisi. Era anche molto serio ed esigente; tanto per dirne una, a Rio alloggiavamo in un albergo di Copacabana, ma non ci permise di andare a distrarci neanche un attimo su quella famosa spiaggia… Io ho cercato sempre di ricambiare la sua stima, anche se non ero e non mi ritenevo un titolare inamovibile; ricordo le volte in cui mi invitava ad alzarmi dalla panchina dicendomi: “Vai in campo e metti un po’ di ordine!”» …

a cura di

Nunzio Spina

 

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