Basket e Olimpiadi: Seul 1988
Sui record l’ombra del doping!

Messaggio di pace dall’estremo Oriente… Italia fuori dal basket… L’impresa di Bordin… Ben Johnson e il primato cancellato… Sabonis trascinatore per l’ultimo oro dell’Unione Sovietica…

 

Giochi della XXIV Olimpiade: Seul, 17 settembre – 2 ottobre 1988

La Corea del Sud aprì le porte al mondo. Nel suo appello si leggeva un messaggio di pace, nella sua immagine la fierezza di un paese moderno, che era uscito – e non voleva più ricaderci – dal baratro del passato. Tutto il mondo, o quasi, accettò l’invito. Una nuova epoca, il ritorno a quelle Olimpiadi universali che sembravano ormai rinchiuse nella nostalgia. USA e URSS di nuovo di fronte, accanitamente ma sportivamente di fronte; e così Germania Ovest e Germania Est, il blocco occidentale e quello comunista; presente, e sempre più agguerrito, anche il Continente Nero. Peccato che tra le poche defezioni (Cuba, Etiopia e staterelli vari) ci fosse proprio quella della limitrofa Corea del Nord. La sanguinosa guerra tra i due paesi, nei primi anni ’50, aveva lasciato una linea di demarcazione geografica lungo il 38° parallelo e una altrettanta netta barriera di ostilità. Davanti alla quale anche la magia dei Giochi di Seul dovette arrendersi.

I primi record vennero stabiliti già con i numeri dei partecipanti. Rappresentative 159, atleti 8500. Aumentavano anche le discipline sportive: baseball e taekwondo al loro debutto come dimostrative; per il tennis si trattò di un ritorno dopo più di mezzo secolo di assenza. La calata degli atleti professionisti – come tali ufficialmente riconosciuti – fu la diretta conseguenza. Del resto, che senso aveva andare avanti sulla ipocrisia del dilettantismo a tutti i costi? Poteva essere questione di maggiori o minori guadagni, sicuramente miliardari quelli dei campioni della racchetta rispetto ad altri; ma il professionista si annidava ormai da decenni dietro l’apparente purezza dello spirito olimpico. Era il segno dei tempi che cambiavano, e nei successivi appuntamenti sarebbero stati abbattuti ben altri tabù. Il problema, se mai, fu un altro: l’importanza di vincere a tutti i costi (altro che principio decoubertiano!) spingeva sempre più gli atleti a fare uso di sostanze proibite, e toccò  proprio a Seul fare i conti – in maniera più trasparente e più clamorosa di quanto avvenuto in passato – col fenomeno doping.

L’arrivo vittorioso di Ben Johnson nella finale dei 100, davanti a Carl Lewis: è record, ma verrà annullato dall’antidoping.

In questa disonorevole ribalta finì la gara più popolare della disciplina regina delle Olimpiadi (i 100 metri) e l’atleta forse più atteso, Ben Johnson, canadese di adozione, giamaicano di origine, che l’anno prima ai Mondiali di Roma aveva stabilito l’incredibile primato di 9’83, lasciando Carl Lewis a 10 centesimi di distanza. Una parte del mondo (Italia compresa) puntò la sveglia nel cuore della notte per assistere alla sfida olimpica tra i due. Rivinse Johnson, o meglio stravinse, schizzando dai blocchi di partenza con una forza esplosiva alla quale tutti i muscoli del suo corpo – persino quelli della sua arcigna mimica facciale – avevano dato il loro contributo. Fermò il cronometro ancora prima, a 9’79, per di più sciogliendosi un po’ nel finale, col braccio destro alzato e il volto girato a cercare gli avversari; Lewis, il cui distacco stavolta era salito a 13”, fece fatica a inseguirlo anche dopo il traguardo per andare a stringergli la mano, un gesto di signorilità – ma probabilmente anche di  frustrazione – che l’austero rivale quasi snobbò. Che sconcerto nel rivedere queste scene solo tre giorni dopo! Giusto il tempo di trovare nelle urine di Ben Johnson lo stanozololo, uno steroide anabolizzante in grado di gonfiare i muscoli al di là dei limiti fisiologici. Il verdetto dell’antidoping fece, inevitabilmente, più rumore dell’impresa sportiva: squalifica, primato di Seul cancellato, così come quello precedente di Roma; mentre Lewis, oltre alla medaglia d’oro (che lo eleggeva come unico nella storia ad aver vinto i 100 in due Olimpiadi consecutive), si ritrovò in mano anche il nuovo primato del mondo, con quel «misero» 9’92 appena realizzato.

Ben Johnson fu solo la punta dell’iceberg. Gli atleti trovati positivi a Seul furono una decina (tra judo, lotta e sollevamento pesi), con altre quattro medaglie tolte praticamente dal collo prima che prendessero la via di casa. Poteva lasciarci le penne il britannico Linford Christie (anche lui giamaicano di nascita), che arrivando terzo in quella finale dei 100 guadagnò poi l’argento, mentre sfiorò il podio nei 200: le analisi scovarono un’altra sostanza proibita, l’efedrina, ma la quantità era minima, e fu graziato. Su molti altri restò solo l’ombra dei sospetti. La velocista statunitense Florence Griffith-Joyner, per esempio, riuscì a conquistare – con una potenza a dir poco sorprendente – l’oro nei 100, nei 200 e nella staffetta 4×100, più un argento nella 4×400. Le unghie lunghissime e colorate, i numerosi anelli e braccialetti, il body attillato, per non parlare del generoso trucco al viso, conferivano un aspetto di femminilità che in qualche modo camuffava il suo fisico virile; quegli ornamenti, chissà, erano riusciti a suggestionare anche i metodi di indagine antidoping. Florence abbandonò subito dopo Seul, poi morì a soli 38 anni, in circostanze mai chiarite…

Il volto sorridente di Florence Griffith-Joyner: le medaglie al collo completano il generoso decoro di anelli, bracciali e trucchi vari

Per fortuna, di imprese sportive cristalline (o comunque senza accertamento della prova contraria) l’Olimpiade di Seul ne dispensò parecchie. Come quella del nostro Gelindo Bordin, che con la sua aria innocente da dilettante della domenica riuscì a trionfare nella maratona (primo italiano nella storia), liberandosi dalla morsa degli africani. Quando entrò nello stadio, non voleva credere ai suoi occhi: si girò più volte a controllare se gli avversari erano davvero a distanza di sicurezza, e una volta tagliato il traguardo si inginocchiò a baciare la pista. Fu l’ultima delle 6 medaglie d’oro azzurre, che sommate alle 4 d’argento e alle 4 di bronzo costituivano un bottino decisamente inferiore alle precedenti due edizioni, ma senza boicottaggio si poteva giustificare. Poche ma buone! Di nuovo entusiasmante il successo di Giuseppe e Carmine Abbagnale nel «due con», col solito sottofondo a squarciagola del telecronista Galeazzi: stavolta dovette risparmiare un po’ di voce anche per il terzo dei fratelli, Agostino, inserito nella formazione vincente del «4 di coppia». Quanto a emozioni, non furono da meno quelle regalate nell’atletica dal siciliano Salvatore Antibo (argento nei 10000) e dall’intramontabile Maurizio Damilano, che alla sua terza Olimpiade si prese ancora una medaglia di bronzo, riducendo a 20 km la distanza della sua gara di marcia.

Delusione italiana negli sport di squadra. Alla quale il basket concorse già in partenza, mancando la qualificazione sia nel settore maschile che in quello femminile. Era dall’Olimpiade di Melbourne (1956) che ciò non accadeva. Sandro Gamba aveva ancora guidato la sua Nazionale agli Europei di Stoccarda dell’anno post-olimpico, il 1985, ottenendo un ottimo terzo posto; poi però aveva lasciato spazio a Valerio Bianchini, allenatore di altrettanta solida impostazione tecnica, che nel suo curriculum poteva già vantare due scudetti e due Coppe dei Campioni con le squadre di Cantù e di Roma. L’avvicendamento portò un sesto posto ai Mondiali di Madrid dell’86 e un quinto ai successivi Europei dell’87: risultati buoni, non eccellenti, per cui si decise il ritorno di Gamba, appena in tempo per ritentare l’avventura olimpica. Intanto, Meneghin aveva dato l’addio alla maglia azzurra subito dopo Los Angeles, due anni dopo ci sarebbe stato anche quello di Marzorati. Al gruppo già consolidato (Brunamonti, Riva, Sacchetti, Villalta, Magnifico), erano stati via via affiancati, tra gli altri, i pivot Ario Costa (Pesaro) e Augusto Binelli (Bologna), gli esterni Sandro Dell’Agnello (Caserta) e Riccardo Morandotti (Torino). Nazionale molto variegata come provenienza di club (in quegli anni tre scudetti a Milano e uno a Pesaro), e forse priva di un vero trascinatore; le mancò sicuramente anche un pizzico di fortuna, perché nel pre-olimpico di Rotterdam, dopo ben sette vittorie consecutive, la sconfitta con la rivelazione-Grecia decretò l’eliminazione.

Gelindo Bordin incredulo di fronte alla sua stessa impresa: è il primo atleta italiano a vincere una maratona olimpica

Sarebbe stato comunque difficile, per gli azzurri del basket, prendere parte con qualche ambizione all’Olimpiade di Seul. Tra le dodici finaliste c’erano di nuovo tutte le formazioni migliori (a parte Cuba). E c’erano soprattutto USA e URSS, pronte a sfidarsi dopo l’ormai lontana – ma non ancora dimenticata – finale di Monaco ’72. Gli Stati Uniti erano guidati da John Thompson, allenatore un po’ troppo legato agli schemi, nei quali finirono per restare invischiati i fuoriclasse di turno (Danny Manning, David Robinson, Mitch Richmond, Dan Majerle; futuro ricco per loro in NBA). Dall’altra parte una Nazionale sovietica quanto mai determinata e in grado di esprimere un gioco moderno, nonostante a guidarla fosse tornato Gomelsky, il vecchio colonnello dell’Armata Rossa, desideroso di riscattare la debacle di Mosca ’80. Quella fu, peraltro, l’ultima formazione olimpica schierata come URSS, prima che il colosso sovietico si frantumasse nei vari stati che l’avevano formato nel 1922. Pescando il meglio da ogni regione, la selezione era formata da quattro lituani, tre russi, un ucraino, un georgiano, un estone, un lettone, un kazako.

L’atteso scontro tra le due potenze cestistico-politiche arrivò in semifinale. Gli USA avevano fino allora dominato, vincendo con disinvoltura tutte le partite, compresa quella dei quarti contro il Portorico (94 a 57). I loro limiti di gioco emersero proprio contro la squadra sovietica, che a parte la sua compattezza, poteva fare affidamento su un trio lituano di grande livello: le due guardie Marciulonis e Kurtinaitis e, soprattutto, il pivot Arvidas Sabonis, giocatore di stazza imponente, 2 metri e 20 x 130 kg (e 54 di piede), ma con notevolissime doti atletiche e una tecnica in continuo affinamento. Era reduce da una lunga serie di problemi col suo tendine d’Achille (due rotture e tre interventi chirurgici), e fu proprio la partita con gli USA a sancire la sua completa riabilitazione. Troppo abituati, forse, a condurre le partite comodamente in vantaggio, gli statunitensi non furono in grado di recuperare il passivo di 10 punti accumulato alla fine del primo tempo; alla fine vennero sconfitti per 82 a 76, e stavolta nessuna recriminazione.

I fratelli Giuseppe e Carmine Abbagnale, col timoniere Peppiniello Di Capua, bissano l’oro di Los Angeles

Si andò così a una finale per l’oro tutta europea, tra URSS e Jugoslavia, squadra quest’ultima che, rispetto a Los Angeles, aveva confermato il solo Drazen Petrovic, trovando per strada però nuovi campioni, come Toni Kucoc, Dino Radja, e Vlade Divac, tutti approdati anche loro in NBA, con un intermezzo italiano per i primi due (rispettivamente a Treviso e Roma). Inizialmente in vantaggio gli slavi, fu poi il trio Sabonis-Kurtinaitis-Marciulonis, con un parziale di 19 a 2, a dare la svolta alla partita: 76 a 63 il punteggio finale a favore dell’URSS, che tornava così sul gradino più alto del podio olimpico per la seconda volta nella sua storia,. Il premio più bello ricevuto in cambio dal governo sovietico (erano ormai i tempi del presidente Gorbaciov e della glasnost, la sua politica di apertura) fu la libertà di andare a giocare in qualsiasi parte del mondo, anche in America, opportunità sfruttata subito dai tre fuoriclasse lituani.

Il lituano Arvidas Sabonis nella partita in cui l’URSS sconfisse gli USA e che sancì la sua affermazione personale

Gli USA non ebbero problemi a battere l’Australia nella finale per il terzo posto, ma la medaglia di bronzo (il peggior risultato ottenuto in tutte le loro partecipazioni olimpiche) non servì neanche come premio di consolazione. Per dimostrare sul campo che i maestri del basket erano ancora loro, non c’era che una sola soluzione: affidarsi ai giocatori professionisti! L’idea cominciò a essere coltivata…

Un’ultima nota del torneo spetta al Brasile, la squadra quinta classificata. Uno dei suoi giocatori, Oscar Bezerra Schmidt (ala di 2 e 05 con un segno particolare, la precisione nel tiro da fuori), aveva già disputato i Giochi di Mosca e di Los Angeles e sarebbe stato presente ad altri due successivi appuntamenti, eguagliando così il record di 5 partecipazioni detenuto dal portoricano Teofilo Cruz. Un primato, però, Schmidt lo conquistò già a Seul, realizzando in una sola partita 55 punti (alla Spagna, non all’ultima arrivata!): era il primo torneo olimpico con il «tiro da tre», bisognava approfittarne. Anche dall’Italia tifarono per lui, perché da sei anni si era già stabilito a Caserta, dove sarebbe rimasto per altre due stagioni. Giocò, in giro per il mondo, fino a 45 anni, raggiungendo ancora un altro record, quello mondiale assoluto di punti segnati in carriera: 49.703!

La consolazione, per il basket USA, venne dalla squadra femminile, che riuscì a ribaltare le posizioni del podio maschile conquistando l’oro ai danni della Jugoslavia, mentre furono le sovietiche a doversi accontentare del bronzo. La squadra azzurra, come detto, non era presente, fermata anch’essa al torneo pre-olimpico, in Malesia. In compenso, il campionato italiano avrebbe presto accolto molte delle protagoniste di quell’oro statunitense: Bridgette Gordon (Como), Andrea Lloyd (Cesena), Theresa Weatherspoon (Busto Arsizio, Magenta, Como), Cyntia Cooper (Alcamo, Parma), Jennifer Gillom (un continuo girovagare tra Milano, Ancona, Messina, Taranto, Termini Imerese, Ribera, prima di tornare in patria e intraprendere una brillantissima carriera da allenatrice.).

Alexander Gomelsky in trionfo per l’oro appena conquistato dall’URSS: una bella rivincita dopo la delusione di Mosca ’80

A parte il basket maschile, l’URSS fu l’autentica dominatrice della Olimpiade di Seul. Netta la sua affermazione, con 55 ori; solo 35 per gli USA, scavalcati ancora una volta dalla Germania Est (36). Per i sovietici da ricordare i 5 ori della ginnastica con Vladimir Artemov e l’oro nel salto con l’asta dell’ucraino Sergej Bubka, che per ben 35 volte avrebbe migliorato il primato mondiale, fino a quello di 6,14 che ancora gli appartiene. L’emblema della forza  della Germania Est fu la nuotatrice Kristin Otto che si aggiudicò la bellezza di 6 medaglie d’oro, e in tre stili diversi (libero, dorso e farfalla): anche i suoi di muscoli destarono più di un sospetto… Sempre in piscina, due grandi protagonisti statunitensi: il nuotatore Matt Biondi (5 ori per lui) e il tuffatore Greg Louganis, che concesse il bis olimpico (piattaforma e trampolino) pur avendo vissuto il dramma di un urto violento del capo che gli procurò una vasta e profonda ferita, insanguinando l’acqua in maniera inquietante, specie dopo la sua confessione postuma di avere contratto l’AIDS. Un’altra piaga, un altro segno dei tempi che cambiavano. Seul – suo malgrado – avrebbe fatto parlare anche di questo!

Nunzio Spina

[17 – segue lintervista a Marzorati, continua con la prima puntata Barcellona 1992]