Stankovic, l’uomo che eresse il Muro (nel ricordo di Alberto Merlati)

Boris Stankovic, scomparso all’età di 94 anni

Portò la rivoluzione a Cantù. E gli bastò un anno per capire cosa e dove poteva migliorare. La stagione successiva, con quello che aveva a disposizione (e per di più ringiovanendo i ranghi), trascinò l’Oransoda alla conquista dello scudetto, il primo nella storia della cittadina brianzola. Uno stratega, Boris Stankovic, scomparso venerdì all’età di 94 anni, a Belgrado; così lo è stato in tutti i ruoli da lui interpretati, prima da giocatore (Nazionale jugoslava), poi da allenatore (quattro stagioni a Belgrado, poi tre a Cantù tra il ’66 e il ’69), infine – e soprattutto – da dirigente (per quasi trent’anni segretario generale della FIBA).

L’Orsansoda Cantù campionessa d’Italia nel 1967-’68. Con il n. 4 Burgess, il 7 Merlati e il 12 De Simone: il trio del “Muro di Cantù”. Il n. 15 è Frigerio e il 6 è Recalcati.

Il capolavoro della sua strategia, quando si mise in testa di far compiere un salto di qualità alla squadra che gli era stata affidata, fu quello che la storia cestistica ha battezzato come “il Muro di Cantù”. Un baluardo difensivo che mortificò le pretese realizzative delle avversarie, a tal punto da colmare – per poi addirittura sovvertirlo – il divario dei valori in campo. Alberto Merlati, di questo muro, era una delle tre colonne portanti. Sentiamo il suo racconto.

«Ė stata un’idea tecnica innovativa, direi quasi stravagante per quei tempi. Si era soliti giocare con un solo lungo nel quintetto, due al massimo, mentre Stankovic decise di mettere insieme tre pivot da due metri. Nello schieramento difensivo, l’americano Bob Burgess stava al centro, l’argentino naturalizzato Alberto De Simone e il sottoscritto ai lati bassi. Restando a zona e allargando le braccia, si formava il muro alto due metri e più; impenetrabile, se non con tiri da lontano, ma la palla doveva andare dentro il canestro, altrimenti il rimbalzo di chi volete che fosse?».

Il muro di Cantù sulla copertina de “I giganti del Basket”

«In realtà il “muro” faceva parte di un disegno più ampio. Davanti a noi erano schierati i piccoletti pronti ad aggredire: uno era Tonino Frigerio, il nostro capitano, che difendeva come un matto rincorrendo chi aveva la palla; l’altro era Charly Recalcati, che era pronto a sfruttare in contropiede solitario ogni nostro rimbalzo. Le vincevamo così le partite! Nel ’67-’68, la stagione dello scudetto, il muro non ha retto pochissime volte; per il resto vi hanno sbattuto il muso tutti, compresi i campioni d’Italia del Simmenthal, che sconfiggemmo nella partita decisiva in quel famoso 7 aprile. Giocavamo al Parini, il nostro piccolo palazzetto: potete immaginare il delirio del pubblico!».

Si avvia ai 77 anni, Merlati, col dinamismo e l’entusiasmo di sempre («Beh in questi giorni un po’ meno… Vivo a Milano nei pressi di Corso Sempione, e non faccio altro che sentire l’angosciante sirena delle ambulanze…»). L’Oransoda Cantù era riuscita a distoglierlo – ma solo in parte – dai suoi studi di ingegneria a Torino, quando lo prese tra le sue file, ancora ventiduenne. Gianni Corsolini e Arnaldo Taurisano furono i suoi primi allenatori; poi, dalla Jugoslavia, arrivò Stankovic… «E con lui una svolta, senza nulla togliere ai meriti dei suoi predecessori. Non era solo questione di tattiche in campo, di mutamenti tecnici; era sostanzialmente l’acquisizione di un nuovo linguaggio, di una maniera decisamente più professionale di intendere la pallacanestro. A me e ai miei compagni ci ha inculcato la mentalità di crescere, di nutrire ambizioni, di osare di più, di guardare oltre i nostri abituali confini; insomma un linguaggio “internazionale”, a noi totalmente sconosciuto».

Alberto Merlati in una figurina d’epoca

«Il suo messaggio è stato accettato e recepito da tutti, compresi i dirigenti. Anzi col presidente Allievi e con lo stesso Corsolini – che era stato il primo a volerlo al suo posto, passando all’incarico di direttore sportivo – si creò una collaborazione davvero proficua, che portò ad esempio alla istituzione del primo “college” sul modello americano, dove venivano ospitati giovani cestisti. Secondo me c’è stato a Cantù un “prima” e un “dopo Stankovic”, quando si è cominciato a dare importanza alla capillare organizzazione societaria, in tutti i suoi settori».

Il ricordo di Alberto Merlati è caldo, coinvolgente. Inutile chiedergli quanta stima e riconoscenza nutre ancora nei confronti di chi lo ha valorizzato come giocatore, facendogli vivere le più grandi emozioni, e forse lo ha anche fatto maturare come uomo. «Era una persona alquanto seria e riservata, non mi ricordo di riunioni goliardiche con lui; ma aveva un grande carisma, e le sue parole, anche i suoi richiami, erano sempre una fonte di insegnamento per noi. Aveva la capacità di sapersi rapportare e di saper dialogare con tutti, dal più piccolo al più grande; una attitudine che non poteva non portarlo là dove si è affermato per tanti anni, come dirigente della Federazione Internazionale. Un “politico” fine, di rara diplomazia, come difficilmente ne potranno ancora nascere…».

Nunzio Spina

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